Il numero che state per leggere ci invita a riflettere su un tema che nella nostra attualità e nella nostra attività quotidiana è di grande rilevanza: il sapere, la formazione, la trasmissione tra le generazioni, e in particolare tutto quanto si verifica nella relazione tra il maestro e l’allievo. In prima istanza, la trasmissione tra le generazioni è caratterizzata dalla disimmetria e dall’ignoto.
Cosa accade tra il maestro e i suoi allievi? Quale impercettibile “fabula” intercorre tra di loro? Al di là dei contenuti che pure vengono trasmessi, delle idee prospettate, dei compiti assegnati all’una e all’altra figura, ciò che risulta essere più importante nell’atto della trasmissione è uno stile, ciò che in altri termini i mistici indicavano come “modus loquendi”. Per Nietzsche ancora, il grande stile era identificabile con la passione.
Indice analitico
ARTICOLI
Editoriale
Gabriele Profita, Giuseppe Ruvolo | Scopri di più
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La trasmissione tra le generazioni
Stefano Alba, Ugo Corino, Giovanni Di Stefano, Gabriele Profita, Giuseppe Ruvolo | Scopri di più
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La bottega, i botteganti e i bottegai
Paolo Guaramonte, Umberto Marrone, Nadia Tagliaferri | Scopri di più
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Nota su “La bottega, i botteganti e i bottegai”
Gabriele Profita | Scopri di più
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La trasmissione tra le generazioni: una questione tra Legge e desiderio
Sebastiano Vinci | Scopri di più
INTERVISTE
Pier Francesco Galli Intervista a cura del Direttivo di Rivista Plexus | Scopri di più
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Tre punti di commento all’intervista a Galli Intervista a cura di Giuseppe Ruvolo| Scopri di più
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Gilberto Di Petta Intervista a cura di Valentina Lo Mauro e Gabriele Profita | Scopri di più
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Antonino Aprea Intervista a cura di Gabriele Profita | Scopri di più
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Elisa De Vita, Irene Fonti, Umberto Marrone, Stefano Squillacciott Intervista a cura del Direttivo di Rivista Plexus | Scopri di più
APPENDICE
Ripensare la formazione: dalla bottega alla standardizzazione (ovvero dai polli
ruspanti a quelli non allevati a terra) a cura di Ugo Corino | Scopri di più
Articoli
Editoriale
Gabriele Profita, Giuseppe Ruvolo
Il numero che state per leggere ci invita a riflettere su un tema che nella nostra attualità e nella nostra attività quotidiana è di grande rilevanza: il sapere, la formazione, la trasmissione tra le generazioni, e in particolare tutto quanto si verifica nella relazione tra il maestro e l’allievo. In prima istanza, la trasmissione tra le generazioni è caratterizzata dalla disimmetria e dall’ignoto.
Cosa accade tra il maestro e i suoi allievi? Quale impercettibile “fabula” intercorre tra di loro? Al di là dei contenuti che pure vengono trasmessi, delle idee prospettate, dei compiti assegnati all’una e all’altra figura, ciò che risulta essere più importante nell’atto della trasmissione è uno stile, ciò che in altri termini i mistici indicavano come “modus loquendi”. Per Nietzsche ancora, il grande stile era identificabile con la passione. La questione della trasmissione psichica tra generazioni è stata posta da Freud in Totem e Tabù e nella Introduzione al narcisismo e successivamente anche da Renè Kaës in particolare, per quanto riguarda la tematica del soggetto e del gruppo. Quest’ultimo ci dice che “il problema della trasmissione è un problema della modernità”, che sono indissociabili uno dall’altro e continua subito dopo: “È sempre in un momento critico della storia che emergono e si fanno insistenti la questione della trasmissione e la necessità di farsene una rappresentazione: nel momento in cui, tra le generazioni, si instaura l’incertezza sui legami, i valori, il sapere da trasmettere, sui destinatari dell’eredità: a chi trasmettere?”.
Sicuramente oggi in particolare, in cui gli elementi storici, sociali e culturali sono ampiamente in discussione…
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…la trasmissione misura per intero tutta la sua crisi e di questo ne siamo consapevoli. Cercare nei maestri, nella strada da loro percorsa, farsi portatori di una tradizione, ma al tempo stesso –sempre ricordando Kaës– “partendo dal negativo, da ciò che manca e che fa difetto”.
La ricerca quindi parte da lì. Cosa fa difetto oggi, cosa manca e come riagganciandosi ai grandi vecchi possiamo ricostruire una trama che ci dica dell’oggi e ci trasporti nel domani?
Subito a seguire la proposta elaborata dal Comitato direttivo della rivista, il fascicolo contiene due contributi strutturati e tre interviste. Infine, in appendice, abbiamo inserito un lavoro di Ugo Corino che riprende alcuni passaggi di questo stesso fascicolo, presentato recentemente per una specifica occasione.
Il primo è un contributo di tre colleghi del Laboratorio di Gruppoanalisi (Paolo Guaramonte, Umberto Marrone, Nadia Tagliaferri) che espone alcune riflessioni a partire dall’esperienza di alcuni gruppi di supervisione online svolta nel corso del 2022, mettendo in evidenza alcune antinomie legate ai temi della trasmissione e della formazione proposti dal Comitato direttivo.
Il secondo è un lavoro di Sebastiano Vinci che articola il suo pensiero sul tema della rivista dal vertice dell’insegnamento di J. Lacan.
Dopo questi contributi, pubblichiamo quattro interviste che abbiamo pensato per approfondire ed estendere l’esplorazione del tema della rivista.
Ci siamo rivolti quindi ad un grande vecchio (e ce ne scusiamo per il termine adottato, perché in realtà ci appare come un giovanissimo precursore) e a due “giovani” con esperienze diverse, ma entrambi testimoni impegnati nella formazione e nel lavoro clinico.
Ebbene tutte le interviste che riportiamo in questo numero parlano dello stile, cui abbiamo accennato (senza alcuna enfasi), della passione di trasmettere quel qualcosa che identifica una esistenza, un certo modo di donare e di donarsi a chi seguirà, una tensione senza soluzione, prospettata a tutti coloro che sono destinati ad assumersi il compito di costruire e di ricostruire un orizzonte, che oggi appare incerto e opaco. Ogni generazione chiude una storia e una passione che va tutelata, forse rivissuta, ma che non può essere più continuata se non attraverso la mera e mortifera ripetizione. Essa va invece conservata, smontata, dissodata e rimodellata attraverso l’humus fertilizzante di novità, storiche e sociali che non si arrestano, e cercano di percorrere un cammino arduo e impervio destinato ad una costante mobilità.
Mobilità, questo è il termine che prediligiamo e che proponiamo, un continuo e costante muoversi alla ricerca dell’essere nel mondo, nel mondo che ci è toccato vivere. E i nostri interlocutori che ci hanno offerto la loro esperienza, la loro visione lo testimoniano, con grande acutezza e sicura passione. Hanno percorso strade impervie, inesplorate, si sono mossi alla ricerca del nuovo per poter continuare, ma portando dentro di sé e nella loro fatica quotidiana il germe preservato della tradizione. La scommessa che ognuno di noi deve affrontare, soprattutto nel momento presente, sembra avere il connotato di essere eretici nella tradizione.
Solo ancora qualche sottolineatura rispetto alle interviste contenute nel numero e che possono fungere da traccia, lasciando ai lettori il piacere della scoperta di innumerevoli schegge di pensiero, in esse contenute. Pier Francesco Galli, sicuramente una delle figure di maggior spicco nel nostro campo, ci ricorda tre mestieri da cui possiamo imparare: il parrucchiere, il ciabattino e il ferramenta e successivamente sintetizza dicendo che è importante far sentire al paziente l’odore di casa. Attenzione: non l’odore di uno studio professionale asettico e replicante, ma quello di una casa, con umori e sapori che forse i pazienti non hanno mai potuto abitare. Tutto ciò ci ha ricordato da vicino il metodo etnopsichiatrico di Tobie Nathan. Insieme alle tante perle che ci vengono da Galli è possibile cogliere nella relazione che ha avuto con tutti noi, la sua potente e naturale umanità, quel prezioso scrigno che ognuno dovrebbe aprire e coltivare.
Anche nella conversazione con Gilberto Di Petta emergono punti e spunti in cui il lascito di una tradizione non assume le caratteristiche della conservazione ma, al contrario, una spinta verso la presa di quanto ne risulta profondamente vivificato nella pratica e nella teoria legata al tempo vissuto e alle modalità che sono consentite.
La voce dei maestri è sempre attuale laddove serve per riprendere un cammino che si è interrotto e non per rifare gli stessi passi. E in questo la voce di Gilberto Di Petta svetta tonante con tutte le esperienze che ci riporta e la devozione verso la storia.
Segue l’intervista al preside della scuola di psicoterapia della COIRAG che fa acutamente il punto di ciò che manca e che serve oggi per affrontare il nuovo. Antonino Aprea ci invita ad affrontare la complessità che esige questo nostro lavoro. Non la chiusura verso il nuovo mondo e i nuovi saperi che non sono il semplice contorno dell’attività umana e sociale che siamo chiamati ad affrontare, ma da un lato il richiamo ai maestri, alla loro curiosità e capacità di affrontare la complessità del mondo che si affacciava ai loro occhi, ma anche lo smarrimento e la determinazione di aggredire l’inesplorato. Dall’altro la capacità di rimodellare la visione culturale e clinica necessaria a rimodellare l’azione.
Il mondo culturale novecentesco costituisce ancora il nostro serbatoio, e vorrei citare alcuni nomi, consapevole di ometterne altri (Freud, Jung, Bion, Foulkes, Lacan, ma anche Devereux, Nathan e ancora filosofi, sociologi, antropologi). Ci fermiamo qui, l’elenco darebbe le vertigini. Eppure sono lì, ancora lì in attesa di essere rivisitati.
Nelle nostre interviste alcuni di questi nomi rappresentano la traccia vitale dell’azione terapeutica, altri sono leggibili in filigrana, altri ancora da rivisitare e riscoprire.
Infine, abbiamo anche intervistato un gruppo di giovani colleghi che hanno ultimato il percorso formativo della COIRAG e che esercitano la professione con successo. E in questo caso emerge tutta la difficoltà del passaggio da una formazione teorica e universitaria alla formazione per esperienza. All’inizio della scuola e per un certo tempo, la richiesta è quella dell’apprendimento di una tecnica, oltre che di un modello, in seguito con la fiducia nel formatore e nei propri mezzi, guardano in modo diverso se stessi, la tecnica e il formatore, il supervisore o il docente e infine anche il paziente e il gruppo, trovando un proprio spazio e modo personale di essere professionisti.
La trasmissione tra le generazioni
Stefano Alba, Ugo Corino, Giovanni Di Stefano, Gabriele Profita, Giuseppe Ruvolo
La trasmissione psichica e culturale tra generazioni è un processo essenziale che presenta sfide specifiche nel tempo attuale. Mentre la trasmissione tradizionale avveniva attraverso la parola e la presenza fisica, in spazi e tempi definiti, oggi essa si realizza attraverso sistemi digitali che annullano lo spazio pubblico e offrono un’infinita fonte virtuale di informazioni, ma priva di connessione generazionale. La memoria e il calcolo vengono sostituiti dall’informazione immediatamente disponibile, facendo sì che la formazione si riduca a un accumulo di notizie e tecniche, privo di approfondimento e personalizzazione. Questo processo sembra interrompere la trasmissione autentica, sostituendola con un enorme manuale d’uso virtuale. Le istituzioni accademiche tendono a privilegiare saperi oggettivi e impersonali, escludendo l’aspetto relazionale delle esperienze. La razionalità attuale si concentra sull’efficienza immediata a scapito dell’autonomia e dell’identità dell’operatore. La trasmissione richiede cura e fiducia, e, per essere efficace e autentica, richiede tempo, fiducia e relazioni profonde. Trasmissione psichica e culturale; Connessione intergenerazionale; Formazione alla psicoterapia.
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Transmission across generations
The psychic and cultural transmission between generations is an essential process that faces specific challenges in the present time. While traditional transmission occurred through spoken word and physical presence, in defined spaces and times, today it takes place through digital systems that eliminate public space and offer an infinite virtual source of information, but lack generational connection. Memory and calculation are replaced by immediately available information, reducing education to a mere accumulation of facts and techniques, devoid of depth and personalization. This process seems to interrupt authentic transmission, replacing it with a massive virtual user manual. Academic institutions tend to prioritize objective and impersonal knowledge, excluding the relational aspect of experiences. Current rationality focuses on immediate efficiency at the expense of the autonomy and identity of the operator. Transmission requires care and trust, and to be effective and authentic, it necessitates time, trust, and deep relationships.
Psychic and cultural transmission; Generational connection; Psychotherapy training
La trasmissione psichica e culturale tra generazioni è un fatto inevitabile e necessario. René Kaës ha già indicato che il soggetto è al tempo stesso, erede, servitore e beneficiario della vita psichica di coloro che lo hanno preceduto e ciò vale per ogni cultura e società.
Ma forse il tempo che viviamo oggi, l’attuale momento storico, gode e soffre di una certa specificità che vale la pena di considerare.
Ancora Kaës in un lavoro del ’93 scrive: “È sempre in un momento critico della storia che emergono e si fanno insistenti la questione della trasmissione e la necessità di farsene una rappresentazione, nel momento in cui, tra le generazioni, si instaura l’incertezza sui legami, i valori, il sapere da trasmettere, sui destinatari dell’eredità: a chi trasmettere?” e prosegue “in tal senso, la nostra modernità non è solo crisi della trasmissione, dei suoi oggetti e dei suoi processi: essa è anche la crisi della trasmissione stessa”.
La crisi della trasmissione ci costringe a pensare e ad esplorare i canali in cui essa transita e i contesti socio-culturali in cui si realizza.
In un tempo precedente la trasmissione aveva luogo attraverso la parola (orale e scritta), la presenza fisica dei protagonisti, il corpo e la materia e si svolgeva in tempi e luoghi definiti. Nella famiglia, o nei gruppi scolastici, di lavoro, professionali, anche informali, ma sempre avveniva con una prossimità fisica. Potremmo dire che emittenti e riceventi in un rapporto circolare, interattivo, condividevano lo stesso spazio in un tempo definito che offriva garanzia di stabilità.
Oggi, gran parte della trasmissione si svolge attraverso sistemi digitali che annientano lo spazio pubblico, il contatto tra le persone e propongono un onnisciente virtuale, infinito e amorfo, dove è difficile orientarsi tra ipotesi e teorie, tra il vero e il falso, ma dove, soprattutto la fonte sembra dispiegarsi lungo un piano orizzontale, così che le generazioni scompaiono. In una fonte virtuale, di per sé onnipotente e sconfinata, è impervio riscontrare un filo che unisce le generazioni, palesandosi il tutto come immediato presente.
L’esercizio della memoria viene meno, così come quello del calcolo, al suo posto si installa l’informazione sempre pronta e disponibile.
La formazione progressivamente diventa semplicemente informazione, accumulazione di notizie, conoscenze precotte, o al più, trasmissione di tecniche, di modelli precostituiti e adatti a tutte le taglie. Il deposito delle conoscenze e delle tecniche si costituisce come un manuale d’uso, più o meno vasto, ma consultabile al bisogno.
Tante volte abbiamo riscontrato nella nostra esperienza di formatori che la richiesta dei formandi è quella di riuscire a possedere un insieme di tecniche sperimentate e pronte per l’uso. Questo processo è già in atto da diverso tempo, ma oggi si fa sempre più pressante la richiesta di modelli e tecniche che possano essere utilizzati prontamente, quasi senza guardare chi abbiamo di fronte, anonimamente, impersonalmente, in una stereotipia allarmante.
Come se qualcosa nel processo di trasmissione si fosse interrotto, bloccato, oscurato e fosse stato sostituito da Google, dove si dice si trova tutto. All’apprendimento per prossimità, seguendo i maestri, guardandoli nel loro operare, si è sostituito un enorme manuale d’uso sempre disponibile e quieto, basta sapervi cercare.
Da un apprendimento caratterizzato dalla dimensione verticale, con un’asimmetria dei livelli di età e di esperienza, si è passati alla disponibilità orizzontale di informazioni reperibili in maniera istantanea. Il passaggio al digitale ha cambiato l’esperienza soggettiva del tempo rendendolo sempre più veloce: al lento precedere dell’approfondimento verticale di un tema si sostituisce la molteplicità istantanea di mille informazioni correlate. Tutto si fa più veloce con l’impressione che i colleghi più giovani siano ben informati su come descrivere un progetto terapeutico ma fatichino a concepire e sostenere il tempo necessario al dispiegarsi della relazione terapeutica nella realtà dell’incontro con la persona. Alla velocità con cui si possono acquisire informazioni sembra dover corrispondere un’attesa rapidità di realizzazione dell’intervento.
La trasmissione riguarda, invece, il passaggio di conoscenze, di competenze, di esperienze, di modi di essere e di vivere tra le generazioni. È una modalità fine, impalpabile ma radicale di essere e di diventare, quello che una volta, nei contesti formativi, veniva sintetizzato in: sapere, saper fare e saper essere.
Sembra infatti che due forze diverse e per certi aspetti opposte si contrappongano. Da un lato l’esigenza della velocità, della tecnicità, la soluzione immediata, pragmatica ed efficace (easy), soprattutto alla portata di chiunque (elementi tutti della nostra modernità che spingono verso il rammendo, il rattoppo, la riparazione); dall’altro, la riflessione e il pensiero, il tempo lungo, una lunga, non episodica, formazione, la stabilità e il permanere: processi che rendono necessarie istituzioni che custodiscano e tramandino saperi, metodi, modelli, codici che non sono immediatamente disponibili a chiunque, al cui accesso presiedono percorsi e relazioni personalizzate e personalizzanti.
1. La trasmissione della professione
Anche nello specifico della nostra professione (psicologia e psicoterapia) i cambiamenti nell’arco degli ultimi 50/60 anni sono stati non solo rilevanti, ma anche rapidi e travolgenti, tanto da disperderne le tracce e la memoria.
Forse un tentativo di narrazione, un recupero della storia della professione psicologica in Italia, sarebbe utile e necessario a ricomporre quanto è stato disperso, per comprendere quanto ora continua a trasformarsi. Tempo e memoria sono elementi essenziali per riconsiderare, alla luce dei cambiamenti in atto, le potenzialità del nostro mestiere e le sue prospettive, sia da un punto di vista di politica sociale che nei suoi elementi più propriamente culturali e tecnici.
Ecco cosa dice uno dei fondatori della terapia famigliare, in Italia, in un suo testo del 2015 (Andolfi, 2015):
Ho appreso la terapia familiare guardando i miei maestri al lavoro, come si fa a bottega quando si impara un mestiere: la conoscenza si acquista osservando e, come dicono i vecchi, “si ruba con gli occhi”! […] Ho come la sensazione che sia finita un’era, quella della terapia familiare che si pratica, si mostra e si apprende in gruppo: oggi, ai convegni, i relatori si presentano sempre più “dietro” a power point che illustrano modelli, approcci, definizioni svariate del proprio intervento clinico, come: terapie focali brevi, dialogiche, integrate, olistiche, focalizzate sulle emozioni, sulla mentalizzazione, narrative, postmoderne, femministe, contestuali, multisistemiche, multifocali, intergenerazionali, strategiche, strutturali. Ma quel che manca spesso in questa pletora di etichette, spesso raccolte in “monogrammi”, è l’evidenza pratica, ovvero l’aderenza di quanto si enuncia a parole a un modo coerente e consequenziale di fare terapia […] Nell’introduzione al suo ultimo libro, The Craft of Family Therapy (2014), Minuchin descrive come oggi i programmi universitari operino prevalentemente con un metodo deduttivo, ovvero come gli studenti apprendano le teorie che sono alla base delle varie scuole […] per poi applicare le teorie alla pratica. Attraverso questa procedura imparano a essere misurati, protettivi e rispettosi dei clienti, a evitare di entrare in conflitto con loro e a cercare le tecniche che sono “più indicate” per il problema in questione. In sostanza vengono preparati a muoversi con cautela […] In questo modo non si incoraggia l’allievo a guardare sé stesso come a una risorsa nella pratica terapeutica e a esplorare un processo formativo più induttivo basato sul fare e sull’esperienza vissuta nel rapporto con le famiglie.
In effetti, abbiamo assistito a una sempre maggiore divaricazione tra l’epistemologia che ha fondato la cultura della formazione e della pratica clinica di matrice psicoanalitica e quella che ha sempre più permeato la cultura del mainstream accademico occidentale. La prima essendosi costituita intorno alla tradizione filosofica della (antropo)fenomenologia e dell’ermeneutica, la seconda intorno agli sviluppi della filosofia neopositivista del Circolo di Vienna e della filosofia analitica anglo-americana. Col risultato che nelle istituzioni accademiche si trasmettono e si legittimano esclusivamente saperi e pratiche operazionalizzate, basate sull’evidenza ostensibile e, quindi, (presunte) oggettive e “trasparenti”, ma impersonali e procedurali; esse lasciano fuori, se non bandiscono, tutto quanto si svolge nello spazio non visibile, non oggettivabile e ineffabile della carne viva delle relazioni tra maestri e allievi, tra professionisti e loro utenti (o pazienti), costringendo chiunque volesse accreditare percorsi formativi e pratiche professionali a parlare il linguaggio “scientista” della dimostrazione digitale, del controllo delle variabili, dell’asetticità e impersonalità dell’agire professionale, della standardizzazione dei protocolli e dei dispositivi operativi.
Questa divaricazione rischia di contrapporre i due versanti, entrambi indispensabili, del processo “reale” della formazione e della trasmissione che, già nel pensiero greco classico, erano ben individuati e sintetizzati da un lato nei mathemata e dall’altro nella synousia. Riprendendo la disamina che ne fa M. Foucault (2008) a proposito della formazione e trasmissione del pensiero filosofico (del tutto assimilabile a quello della nostra professione e, più in generale, alla costituzione e trasmissione dei modelli culturali):
[in Platone] il discorso filosofico non può incontrare il suo reale, il suo ergo, se non assume una certa forma… La forma dei mathemata. I mathemata sono delle conoscenze, ma sono anche le formule stesse della conoscenza…la maniera in cui essa si esprime in matemi, cioè in formule che possono dipendere dalla mathesis, cioè dall’apprendimento di una formula fornita dal maestro, ascoltata e imparata a memoria dal discepolo.
Ma Platone sostiene che “…non è lungo il filo dei mathemata che la filosofia si trasmette… La filosofia si acquisisce attraverso una synousia peri to pragma.” Quest’ultima definizione è traducibile come “essere e vivere insieme intorno a un oggetto, all’azione o anche al dialogo e al pensare condivisi”.
E Foucault (2008) commenta:
[…] colui che deve sottomettersi alla prova della filosofia deve ‘vivere con’, ‘coabitare’ con essa […] chi filosofa deve coabitare con la filosofia […] In questa prospettiva, non si può in effetti pensare che la filosofia possa essere insegnata attraverso qualcosa come un materiale scritto, che fornirà la forma dei mathemata alla conoscenza: mathemata che saranno così trasmessi da un maestro qualsiasi a dei discepoli qualsiasi, i quali dovranno impararlo solo a memoria.
Platone si dichiara apertamente contrario a trasmettere il sapere della filosofia tramite la scrittura in forma di matemi, in quanto la natura stessa della conoscenza filosofica risiede nella sua pratica, il suo reale non sta nelle formule, ma vive nel continuo scambio e passaggio tra chi ne condivide la pratica.
Ciò significa che la formazione alla filosofia, come alla psicoterapia, si installa nella struttura del pensare, del sentire e del vivere con gli altri (nell’ethos soggettivo fondato sull’esperienza condivisa), il suo luogo, il suo humus è la comunità, dei filosofi come degli psicoterapeuti.
In sintesi, occorrono dei gruppi reali, dei plexa (rimane molto ambiguo a questo proposito il postmoderno concetto di rete), affinché ci sia trasmissione ed elaborazione dei contenuti e dei modi dell’operare professionale.
In questa prospettiva la formazione alla pratica clinica è di necessità di natura artigianale, è l’acquisizione di un mestiere e il suo obiettivo consiste principalmente nello sviluppo e trasmissione della sensibilità clinica; per la maturazione di una sensibilità non si può prescindere da un tempo lungo in cui, di nuovo, “essere e vivere insieme intorno a un oggetto, all’azione o anche al dialogo e al pensare condivisi”, imparare un mestiere significa infatti iscriversi e saper vivere entro una comunità professionale.
Questo scarto sul tempo necessario si può esemplificare nel lavoro di supervisione clinica, quando, piuttosto che rispondere alla domanda: cosa devo fare? L’attenzione viene posta su che cosa sto facendo o penso, mi prefiguro di fare.
Se parliamo di trasmissione psichica è indispensabile la prossimità, la presenza, l’attivazione dei sensi, mentre nella visione digitale essa risulta piatta, statica, senza coinvolgimento sensoriale. Insomma occorre stare insieme e condividere il lavoro di cura, nei luoghi della cura, siano ospedali, aule scolastiche, universitarie o di specializzazione. Purtroppo, il modello vincente in questo momento sembra privilegiare altro: la trasmissione o, più semplicemente la visione su uno schermo, di un sapere codificato, sintetizzato, ridotto in pillole che deve essere successivamente ripetuto per essere valutati. Come dice Andolfi (2020)
Interessante notare che, nel corso degli anni, gli psichiatri si sono progressivamente allontanati da una formazione in psicoterapia in modo abbastanza omogeneo nei Paesi occidentali, privilegiando di gran lunga l’approccio biologico; per giunta, soprattutto nei Paesi anglosassoni, gli psicologi clinici sono stati affiancati e spesso sostituiti da counsellor e da laureati in Marital and Family Therapy (si tratta per lo più di master biennali), con una formazione di base decisamente più modesta […]. Naturalmente noi conosciamo bene la realtà italiana, dove per legge solo gli psicologi possono praticare la psicoterapia e, come spesso accade, noi italiani finiamo per essere sempre “originali” con regole, norme e monte ore della formazione molto adro, possiamo affermare che la formazione di base dello psicologo in Italia, quella universitaria, è sempre meno completa e decisamente settoriale, dipendendo dal pensiero dominante in una università rispetto a un’altra, ed è prevalentemente teorica, quindi incapace di fornire ai futuri terapeuti le esercitazioni cliniche e gli strumenti operativi necessari per fronteggiare in diversi dagli altri Paesi europei.
Per completare il quterapia situazioni di crisi, disgregazioni familiari e marginalità sociali sempre più drammatiche, dove sarebbe necessaria una competenza e uno spessore professionale molto solido. Per giunta, il metodo di apprendimento universitario tende a indottrinare e a presentare modelli di pensiero e di ricerca fabbricati nel mondo accademico, molto distanti dalla realtà e dai dati dell’esperienza sul campo.
Anche Marcel Sassolas (2021), un collega francese con cui alcuni di noi hanno lavorato e che per più di 50 anni si è occupato di cura della malattia mentale grave, ci ricorda:
Il tempo attuale è sotto il segno di una razionalità eccessiva e intollerante, che si basa su indicatori oggettivi, al servizio di una ossessiva preoccupazione di un’efficienza immediata. É anche sotto il segno della programmazione degli obiettivi e del controllo della valutazione dei risultati. Prima ancora di essere intrapresa, ogni azione deve essere prevista, descritta in un progetto preliminare. Questo non nasce più dall’iniziativa di quelli che lo realizzeranno, ma dalla loro risposta a un’ingiunzione venuta dall’esterno (la richiesta di un progetto) i cui dettagli sono loro imposti. Questa procedura non è appannaggio esclusivo della psichiatria, riguarda praticamente tutte le attività del servizio pubblico che hanno un rilievo. Ma la sua nocività è sensibilmente grande in psichiatria: l’operatore non è più il soggetto della sua azione; è l’esecutore di un’azione pensata altrove.
Come potrebbe aiutare un paziente a ritrovare la strada della sua identità perduta, se lui stesso di fronte a questo paziente non è posto nella posizione di soggetto dei suoi agiti?
A fronte di un modello siffatto che privilegia le procedure e il controllo, sia il tempo della cura, come quello della formazione risultano essere compressi a favore dell’espletamento di procedure burocratiche che rubano gran parte del tempo a ciò che dovrebbe essere il compito primario.
Come dice ancora Sassolas, il modello di cura “che difendiamo ha il torto di consumare molto tempo nella cura”!
Siamo passati da una formazione “fai da te” tipica degli anni 70 del secolo scorso dove ognuno andava a cercarsi i propri maestri o gli approfondimenti alla bisogna secondo una antica metodica del tipo prassi teoria prassi, ad una frammentazione e regolamentazione ossessiva della formazione fortemente istituzionalizzata e burocraticamente normata. Veramente da un eccesso all’altro… Ancora Andolfi (2020), dice che:
Come direttore dell’Accademia di Psicoterapia della Famiglia, penso di dissociarmi radicalmente dal pensiero universitario prevalente in Italia, volto a riproporre e imporre nella formazione della psicoterapia dottrine accademiche e curricula di insegnamento che ricalcano i programmi universitari, come se la specializzazione in psicoterapia fosse una riproposizione amplificata di una laurea magistrale.
Avendo insegnato per quarant’anni all’interno della facoltà di Psicologia clinica e dinamica dell’Università La Sapienza di Roma, ho verificato con mano la totale assenza di una formazione clinica e personale dello studente nelle aule universitarie, sostituita da un mero indottrinamento teorico basato esclusivamente sulla conoscenza dei fatidici “libri di testo”. Ciò mi fa affermare senza ombra di dubbio che sarebbe “mostruoso” riproporre una specializzazione in psicoterapia che ricalchi le orme di un percorso universitario frammentario e libresco privo di anima e di creatività, che dovrebbe essere totalmente rifondato e allineato a programmi universitari europei: in questi ultimi si insegna a fare clinica con la supervisione di tutor e a riflettere in classe con i docenti sulle esperienze di tirocini terapeutici obbligatori per acquisire una laurea in Psicologia. Solo in questo caso i modelli formativi offerti, volti a fornire le basi della Psicologia clinica, assumono un valore conoscitivo utile nella successiva attività professionale. Così facendo, giusto per fare un esempio, l’apprendimento del colloquio psicologico e dell’osservazione relazionale vengono integrati nell’esperienza pratica, senza rimanere appesi ai libri. Ancor più complesso e inevaso è il tema della formazione personale dello studente in Psicologia clinica, che non mi sembra sia stato mai affrontato nelle sedi universitarie; né come una opportunità offerta già durante gli studi universitari né tanto meno come una prospettiva futura per chi andrà a fare un mestiere con un alto tasso di esposizione personale a conflitti e drammi umani. […]
È abbastanza singolare che in Italia non siano gli ordini professionali o le associazioni nazionali e internazionali di psicoterapia a stabilire i profili delle scuole di psicoterapia, ma sia piuttosto un Ministero, quello dell’Università, a definire idoneità, regole, orari e programmi formativi della specializzazione in Psicoterapia. Se quindi il modello dell’esamificio e delle lezioni accademiche frontali impera nei corsi di laurea, si rischia di riproporre e amplificare la stessa logica, minimizzando gli elementi costitutivi della specializzazione, che sono soprattutto l’apprendimento serio e prolungato in un quadriennio di una pratica clinica coerente con i presupposti teorici della Scuola prescelta, con una supervisione costante dei casi clinici seguiti e un serio tirocinio all’interno dei servizi pubblici. Quasi trent’anni di Legge sulla Psicoterapia hanno portato a una amplificazione mostruosa del numero delle scuole riconosciute e a verifiche basate sovente su “corrette planimetrie”, ovvero sugli spazi fisici adeguati di una scuola e sull’erogazione obbligatoria lezioni universitarie, come la Psicologia generale e la Psicopatologia, solo per citarne alcune tra le tante, più che a un approfondimento e una verifica dei modelli formativi delle specifiche scuole; operazione senz’altro più difficile, ma che sarebbe almeno meritoria per conoscere lo stato dell’arte della psicoterapia in Italia.
Senz’altro questa Legge ha prodotto danni gravissimi, più volte denunciati su riviste scientifiche, da eminenti studiosi del settore, con editoriali di fuoco tra cui, solo per citare alcuni nomi, quello scritto da Pierfrancesco Galli su Psicoterapia e Scienze umane, o quanto scritto da Corrado Pontalti e da Andolfi su riviste di psicoanalisi di gruppo e di terapia familiare. In particolare viene criticata la scelta senza senso di escludere gli psichiatri e le assistenti sociali dalla formazione in Psicoterapia, limitando l’accesso ai soli psicologi. I primi perché considerati psicoterapeuti ope legis, avendo una specializzazione in psichiatria (ma zero conoscenze in psicoterapia), le seconde perché “non in possesso dei requisiti universitari” per accedervi. […]
Negli anni Settanta e Ottanta, l’Italia era all’avanguardia in Europa e nel resto del mondo quanto a cultura psicoterapeutica nei servizi pubblici. C’è da chiederci cosa è rimasto oggi di questo patrimonio culturale basato sulla condivisione di pensieri ed esperienze cliniche e formative integrate e multidisciplinari. Basterebbe muoversi fuori dai confini provinciali dell’Italia per accorgersi che il mondo della psicoterapia ovunque all’estero non manda all’aria competenze acquisite da professionisti del settore e non esclude intere categorie professionali dalla formazione e dalla pratica della psicoterapia. Altrove, cervelli e conoscenze multidisciplinari si valorizzano e si conservano come patrimoni del sapere, al di fuori di beghe e carriere universitarie!
La trasmissione tra le generazioni è principalmente un modello della cura. Prendersi cura di chi prenderà il testimone, di chi ci seguirà, di chi deve essere pronto, in autonomia, a cambiare rispetto a quanto accadrà in futuro. La formazione e la trasmissione non possono essere soltanto un passaggio di consegne di un sapere archiviato, ridotto in pillole o formule tecniche e, perciò stesso morto. Occorre difendere questo tempo della trasmissione, che non può essere limitato da altre esigenze, non lo si può strumentalmente accorciare o troppo standardizzare per esigenze economiche o per altro, se non a scapito del passaggio stesso tra le generazioni.
La cura analitica non può essere assimilata ad una tecnica, ma ha a che fare con una sorta di pratica che assomiglia all’artigianato, dove fondamentale è lo spirito creativo che dovrà costituire la “tecnica” più adeguata alla soluzione di problemi sempre nuovi e imprevisti.
Nel nostro campo professionale le università (tranne rari casi) oltre a farsi “conservatori” di conoscenze acquisite, sono state tutt’al più capaci di dar luogo a nuove conoscenze, a nuove competenze, ad un ampliamento del sapere, ma non del saper essere, non del saper fare. Diventare psicoterapeuti analitici significa ripristinare proprio una unitarietà dialettica tra l’essere, il saper essere e il saper fare (cfr. AA.VV., 2021).
2. Crisi e trasformazioni della trasmissione?
Ma sono in atto oggi tanti altri attacchi al tempo della cura e della trasmissione.
Come prima cosa ricordiamo che la trasmissione fa riferimento al passato, a ciò che già è stato trasmesso. Hobsbawm (1994) sostiene che gli ultimi anni del ‘900 hanno distrutto i legami che connettono “l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti”. Siamo quindi in presenza di una perdita della memoria. Le nuove generazioni non hanno più un riferimento nelle generazioni precedenti e, probabilmente, non hanno ricevuto la “cura” di cui pure avevano bisogno. Per quel che è dato osservare, molte delle attività di cura che le generazioni successive desiderano, sono legate alla trasmissione non di un sapere ridotto in pillole e schemi, non di un sapere che suggerisca semplicemente “come si fa una cosa o tal altra cosa”, ma di tempo per riflettere insieme sulla propria vita, sul proprio futuro e sul senso delle cose che accadono. Al contrario di una semplicistica visione che li vuole disincantati e soltanto con la voglia di divertirsi, i giovani oggi sono disponibili all’ascolto e alla condivisione. Forse la generazione di chi li ha preceduti ha in questo caso qualche responsabilità. Noi siamo chiamati in causa come generazione e come professionisti, almeno per cercare di comprendere meglio come sono stati e sono i nostri rapporti con i figli.
Intorno a noi lo spazio e il tempo si è dilatato a dismisura. Non vi sono più luoghi dove l’abitare è costante. In altre epoche si nasceva, si viveva e si moriva sempre nello stesso spazio più o meno dai confini definiti e la memoria dei luoghi si conservava con tutti i significati, storici, architettonici, paesaggistici e relazionali sempre noti. Si tramandavano in questo modo visioni e simboli relativamente stabili e duraturi. Nella realtà vissuta dai contemporanei tutto questo è andato disperso. Si cambia spesso città, abitazione, e relazioni in nome di ammodernamenti costanti. La vita reale non mantiene più un contesto stabile ma assai mutevole, dove è richiesto un continuo adattamento e ristabilimento delle connessioni tra persone e luoghi. Si abita per così dire sempre nel rinnovamento e nel cambiamento di luoghi, lavoro e relazioni che non favoriscono la possibilità di ricordare.
Connerton (2009) sostiene che la vita comunitaria e gli scambi tra gli uomini sono favoriti nelle città dove sono presenti molti incroci tra le strade. Venezia, con il suo intrigo di strade che s’incrociano, è l’esempio riportato di vita comunitaria dove gli incroci si situano molto vicini tra loro, al contrario delle città americane che hanno incroci distanti tra di loro, e conclude: “Sottovalutare gli incroci significa sottovalutare la memoria della città”.
La città, dove si svolge la gran parte dell’esistenza, ha un ruolo centrale nella perdita della memoria e nel disegnare non solo forme di solitudine, ma al tempo stesso nel relegare, sempre a fini di aumento della produttività e dell’assoggettamento umano, le persone anziane in luoghi delimitati. Si crea socialmente una distanza fisica tra anziani e giovani e la trasmissione ne risulta minacciata.
Il tempo è esso stesso fratturato in una serie di attività, spesso a termine, discontinue, veloci e nelle carriere lavorative si assiste proprio alla fine della comunicazione tra le generazioni. Laddove non vi è uno spazio comune e un tempo sufficientemente lungo, è difficile stabilire relazioni di continuità e quel sentimento indispensabile che è la fiducia tra le persone. E perfino il mondo familiare, basato sulla fiducia, non ha più tempo sufficiente per mantenere una certa continuità e stabilità. Come possono avvenire le narrazioni, lo scambio di idee, di opinioni e di sentimenti in una realtà continuamente accelerata e frazionata? Come può aver luogo quella forma di apprendimento legata all’osservazione diretta del fare delle generazioni che ci precedono? L’assenza di figure di riferimento nel proprio ambiente di sviluppo, l’appalto all’esterno di compiti di cura e di educazione rende tutto standardizzato specie quando si richiede alle figure degli educatori e dei formatori di trasmettere conoscenze attraverso le tecnologie e non ci si cura dei modelli della trasmissione umana.
Anche la memoria culturale viene cancellata dalla massa d’informazioni, immagini e suoni che costantemente caratterizzano la nostra vita ordinaria. L’informazione è diversa strutturalmente dalla formazione. La prima è istantanea, reperibile facilmente, improntata al consumo, immateriale. La seconda ha bisogno di fiducia, prossimità, continuità. La trasmissione per essere efficace e non distorta ha bisogno proprio della fiducia e di relazioni profonde che si istaurano nel tempo lungo. Potremmo dire in una sorta di passaggio dall’emozione al sentimento: da qualcosa che è momentaneo, immanente a qualcosa che struttura una permanenza, una continuità temporale.
Ancora una notazione. Il sentimento nostalgico è collegato alla memoria di un tempo finito irreversibilmente. È presente nei migranti, negli esiliati, negli anziani. La modernità considera queste categorie come marginali, non integrate, forse come anormali. Il concetto di normalità è equiparato a produttività che espelle da sé ogni forma di nostalgia del passato ed è protesa soltanto verso il futuro. Anche alcuni sentimenti sono “negativizzati” nel mondo produttivo contemporaneo. Ricordiamo che nei manuali di psicologia generale una delle prime cose che si mostravano a proposito delle scelte di giovani scimmiette (Esperimento di Harlow, 1958) era che quest’ultime preferivano sempre il peluche e non il modellino di acciaio. Perché oggi le giovani generazioni dovrebbero scegliere diversamente e preferire un apprendimento proveniente da robot, ripetitivi e noiosi?
3. Le prime conclusioni… potrebbero essere
La trasmissione tra generazioni, se attuata attraverso un training in presenza come nelle botteghe artigiane, esige un tempo lungo e non standardizzato (ad ognuno i suoi tempi), una costante frequenza tra i partecipanti che non si esaurisca nelle sole competenze tecniche, ma attraverso incorporati culturali e attitudinali delle figure dei maestri incontrati nel proprio percorso (la synousia peri to pragma!). È ciò che chiamiamo osservazione partecipata, ma con una temporalità e un dispositivo ben definito che consente agli allievi di acquisire disposizioni, modelli di pensiero, sensibilità e un fare per assimilazione. È indispensabile sia uno scambio interculturale, sia relazionale perché si impari a conoscersi e ad interagire profondamente. Anche in questo caso la fiducia è un elemento essenziale perché avvenga un vero e proprio scambio.
Un altro elemento importante è costituito dai processi della narrazione, ossia dalla possibilità di ricorrere alla memoria storica degli antecedenti. Conoscere la storia della disciplina umana e incarnata dai predecessori, dalla viva voce di chi ha già esplorato un campo e se n’è fatto interprete, significa avere la coscienza che non si è soli e che si è iscritti in una filiera che consente un riferimento certo e che protegge nella propria attività futura. Tale narrazione ha comunque sempre una base solida nella reciprocità. Anche chi apprende ha una storia da utilizzare e scambiare. L’atteggiamento di chi possiede una competenza e che deve essere comunicata unidirezionalmente, non sortisce effetti. Annoia, sminuisce il senso della relazione, può indurre forse ammirazione, ma serve soltanto come rinforzo narcisistico del “maestro”.
La narrazione passa, in prevalenza, attraverso l’osservazione, la possibilità di una convivenza analitica, di ricordi, sogni e riflessioni vissuti intorno al lavoro analitico e anche attraverso la memoria e il racconto di quanto accaduto in tempi antecedenti. Conoscere la storia ma soprattutto vivere insieme la storia.
Infine, due suggestioni che provengono dalla tradizione rabbinica. La prima è una metafora del rapporto di appoggio e legame tra le nuove e le precedenti generazioni. La parola che in ebraico indica la generazione è dor, essa però letteralmente significa il gesto di intrecciare una cesta, passando un nuovo filo o stecco attraverso quello immediatamente precedente. Ecco cos’è una generazione: un nuovo filo che si attacca a un filo precedente sul quale si àncora e dal quale però si differenzia per una parte, che sarà la base con la quale si intreccerà il filo-generazione successivo. Senza questo intreccio non esiste trasmissione, continuità, elaborazione e trasformazione culturale.
La seconda suggestione è uno dei tanti passi del Talmud nel quale si narra della morte di Mosè e della sua angoscia che venga conservata dopo la sua morte la memoria di quanto ha trasmesso al popolo ebraico. In questa narrazione Mosè non intende morire come tutti gli altri e fa appello a Dio per sospendere la sua fine. Ma Dio gli mostra una scena di un lontano futuro nella quale, in una casa di studio, un rabbino spiega agli allievi l’interpretazione di alcuni segni a Mosè stesso incomprensibili; ma quando un allievo chiede al maestro da dove avesse appreso tanta sapienza, la risposta è : “Questa sapienza è stata data un giorno a Mosè sul Monte Sinai, nel giorno della rivelazione, ed è lui che ce l’ha trasmessa”. Dopo questa visione del futuro Mosè accetta di morire (Horvilleur, 2021).
Bibliografia
AA. VV. (2021). Rivista di Psicoanalisi, 67(1) (dedicato alla trasmissione e formazione in psicoanalisi).
Andolfi, M. (2015). La terapia multigenerazionale. Raffaello Cortina. Andolfi, M. (2020). Il dono della verità. Raffaello Cortina.
Connerton, P. (2009). Come la modernità dimentica. Trad. it. Einaudi, 2010.
Focault, M. (2008). Il governo di sé e degli altri. Trad. it. Feltrinelli, 2009.
Hobsbawn, E. J. (1994). Il secolo breve. Trad. it. Rizzoli, 1996.
Horvilleur, D. (2021). Piccolo trattato di consolazione: Vivere con i nostri morti. Trad. it. Einaudi, 2022.
Sassolas, M. (2021). La penna dello psichiatra: Apologia per una psichiatria interpersonale. Luigi Guerriero Editore.
La bottega, i botteganti e i bottegai
Paolo Guaramonte, Umberto Marrone, Nadia Tagliaferri
La formazione alla psicoterapia è un tema complesso, che non può essere risolto nella sola adesione alle normative del MIUR. All’interno del Laboratorio di Gruppoanalisi è in corso da tempo una riflessione in merito a questo tema, che ha portato all’iniziativa “L’Andare a Bottega”. Il presente articolo parte dall’esperienza di 5 gruppi di supervisione online a cadenza quindicinale, svolta nel corso del 2022, che attualmente sta proseguendo. Dagli scritti dei partecipanti e dei conduttori che raccontavano l’esperienza, si tenta di far emergere alcune antinomie presenti nei testi e riconducibili al percorso che ciascuno psicoterapeuta deve compiere, in riferimento al ruolo sociale e clinico della professione, per arrivare ad abitarlo. L’intreccio con l’articolo “La trasmissione tra le generazioni”, che ha rappresentato uno stimolo utile ai partecipanti per raccontare la propria esperienza, concilia la complessità della visione. I singoli contributi sono collocati come tessere di un mosaico, in grado sia di raccontare un’esperienza sia, al tempo stesso, di mostrare come non risolvere le antinomie tramite un’adesione acritica a una posizione piuttosto che a un’altra. Questo processo, svolto attraverso il gruppo, rappresenta una possibile chiave di lettura utile per un’esperienza umana e professionale più libera e consapevole.
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The workshop, the craftsmen, and the artisans
Training in psychotherapy is a complex subject, that cannot be approached only by adhering to the MIUR regulations. A reflection on this subject has been underway for some time within the Laboratorio di Gruppoanalisi, leading to the initiative “L’Andare a Bottega”. This article starts from the experience of five online supervision groups on a fortnightly basis carried out during 2022, which is currently continuing. From the writings of the participants and the conductors who were telling about the experience, we try to bring out some antinomies related to the path that each psychotherapist needs to take because of the both social and clinic role of profession, in order to fully live such role. The interweaving with the article “La trasmissione tra le generazioni”, that has been for the participants a stimulus to tell their own experience, allows a broad vision in which the individual contributions are placed as pieces of a mosaic that tells the experience. At the same time, it shows how not to resolve issues with uncritical adherence to one position rather than the other. This process, in place through the group, represents a possible key to a freer and more conscious human and professional experience.
Transmission; Antinomy; Workshop
Siamo artigiani della nostra arte. Lavoriamo perché la nostra vita sia la sua bottega.
Umberto Marrone
1. Il retroterra della bottega
Questa è una storia che riguarda la bottega, i botteganti e i bottegai, il loro rapporto con la trasmissione del sapere.
Bottega è un sostantivo, quel tipo di parola il cui significato determina la realtà. I sostantivi nominano tutte le cose: persone, oggetti, sensazioni, sentimenti e conferiscono loro senso. Questo senso si caratterizza, evolve e si trasforma dentro una data cornice storica, sociale e culturale.
La bottega nella storia indica un piccolo esercizio commerciale, abitualmente affacciato sulla pubblica via e composto da un ambiente dedicato alla vendita e da un adiacente laboratorio artigianale, ove si lavorano i materiali; il termine bottega è usato anche per indicare il luogo di lavoro di un artista e dei suoi eventuali apprendisti.
A partire dal XIX secolo, la crescente industrializzazione dei prodotti ha condotto alla graduale trasformazione delle cosiddette botteghe, suddividendole e distinguendole in esercizi a prevalente vocazione commerciale da una parte ed in attività squisitamente artigianali dall’altra.
Ancora, il processo industriale ha subito una forte accelerazione nel secondo dopoguerra e, unitamente alla nascita della grande distribuzione, ha determinato la quasi totale scomparsa delle botteghe. Anche la formazione alla psicoterapia è stata sottoposta a questi mutamenti? Alcuni bottegai già da tempo si interrogano a tal proposito (Alba et al., 2023).
Nelle città italiane del XXI secolo, sono visibili alcune tracce di bottega, così come tradizionalmente intesa, nelle piccole attività come fornai, calzolai e sarti. Per la formazione in psicoterapia come funzionano le cose? Forse anche in questo caso la trasmissione avviene prioritariamente mediante un processo di grande distribuzione di un sapere preconfezionato?
Però il sapere si esercita in piccoli studi distribuiti su tutto il territorio nazionale, in cui spesso il giovane artigiano opera come soggetto unico e questo talvolta vale anche per l’esercizio della professione dentro alle istituzioni. Quali sono dunque i nostri spazi residuali, le tracce rimaste, i luoghi di raccordo all’interno di questa ampia e capillare distribuzione in cui si confrontano i saperi dei singoli artigiani? E quali sono i costi politico-sociali di una comunità professionale che opera nel silenzio di uno studio o di un’istituzione, forse troppo poco affacciati sulla vita pubblica?
Poi succede che negli ultimi anni in tutta Italia si sono rigenerate le botteghe e il relativo riconoscimento delle stesse in quanto considerate esercizi storici. Le istituzioni, le camere di commercio e le associazioni di categoria si stanno sempre più orientando verso la conservazione del patrimonio, il riconoscimento e la salvaguardia del suo valore culturale ed economico. Nel nostro campo artigianale, nell’ambito delle scienze umane, come sono messe le cose?
Le botteghe storiche riacquistano così il significato di patrimonio imprenditoriale, sociale e culturale, parte integrante della storia delle città e contributo allo sviluppo e al radicamento di un collettivo senso di appartenenza e di identità negli abitanti. L’evoluzione è quella del riconoscimento di uno status di bene culturale. Possiamo immaginare che la bottega di avviamento alla psicoterapia sia un bene da conservare allo stesso modo?
In piena pandemia nasce nel Laboratorio di Gruppoanalisi il Progetto “L’andare a bottega”, piccoli gruppi online di supervisione rivolti a neodiplomati psicoterapeuti. Isolamento, distanza, rottura di alcune sacralità dei setting professionali, sono gli acceleratori che portano a concepire uno spazio gruppale dalle ampliate geografie, sia territoriali che generazionali, con l’intenzione di produrre una messa in comune. La brutta faccenda dell’isolamento, una specie di incubo postmoderno che diventa reale, ci spinge a sfidare il digitale per cercare una strada che ci sostenga nel tentativo di conservare i nostri beni facendo bottega.
Ci si vuole ritrovare, sentire in contatto e forse è il momento buono di, almeno parziale e forse transitoria, rottura di alcuni schemi, utile per rilanciare uno spazio della formazione artigianale che valorizzi lo status di bene culturale, quello di una piccola bottega, un gruppo di artigiani. Le botteghe vengono aperte nel 2022. Che cosa succede in questo anno?
Cinque botteghe si sono avviate e hanno lavorato per tutto l’anno, incontrandosi online con cadenza quindicinale. Oltre agli incontri e alla lavorazione dei materiali clinici, nelle botteghe si è promossa una riflessione sulla formazione a partire dallo stimolo “la trasmissione tra le generazioni”, consegnando a conduttori e partecipanti questo scritto con il mandato di restituirne uno proprio, frutto dell’intreccio tra lettura ed esperienza nel gruppo. Alla fine di questo anno e di questo lavoro, botteghe, botteganti e bottegai si sono confrontati, hanno fatto bottega di rete in plenaria online e hanno espresso alcune prime considerazioni.
Il presente scritto non nasce con la finalità di tessere le lodi di questa iniziativa che sta proseguendo nel corso del 2023, bensì di dare seguito alle domande ed agli interrogativi rispetto alla trasmissione del sapere nella formazione in psicoterapia che ne hanno animato gli incontri. In un processo di costante confronto sono stati messi in dialogo gli scritti dei partecipanti, dei conduttori e l’articolo “La trasmissione tra le generazioni” cui essi, nel raccontare l’esperienza, facevano riferimento.
Abbiamo formulato l’idea di portare avanti un lavoro critico, con rimandi e interrogativi aperti, che fanno del nostro modo di lavorare una prerogativa imprescindibile. All’interno dell’alveo gruppoanalitico, questa immagine era già stata associata alla formazione dei giovani psicoterapeuti attraverso il gruppo da Pontalti, che ne definisce il lavoro al suo interno come “una bottega, una comunità in fondazione, un sapere che si innerva, soli senza essere mai soli” (Pontalti, 2011; p. 137).
Nel riflettere a valle dell’esperienza ed attraverso gli scritti di partecipanti e conduttori dei gruppi sono emerse alcune antinomie. Abbiamo scelto di esplorare i temi e riflettere su di essi attraverso queste lenti in quanto il concetto di antinomia, come emerge anche considerando la sua etimologia greca (ἀντινοµία composto di ἀντί
«contro» e νόµος «legge»), racchiude la compresenza di due affermazioni contraddittorie, che possono essere entrambe dimostrate o giustificate, escludendo quindi il principio di non contraddizione. Abbiamo pensato a questa non conciliabilità come una dimensione dinamica ed in questo attivatrice, potenzialmente, di un dialogo, un antidoto all’impossibilità dialettica di far prevalere una posizione sull’altra ed al rischio di rinunciare ad interrogarsi facendo propria una sola delle due.
2. Antinomia 1: bottega-mercato
La prima antinomia, insita nel nome dell’iniziativa “L’andare a bottega”, riguarda la differenza tra la logica della psicoterapia come arte e quella del mercato come commercio, per cui l’incontro con l’altro è quantificabile come prestazione, magari manualizzata. Yalom osserva, per esemplificare la differenza tra la terapia e l’erogazione di un trattamento standardizzato, come sia “necessaria la tecnica per suonare il piano, ma, alla fine, per fare musica di deve trascendere la tecnica appresa ed affidarsi ai propri movimenti spontanei” (Yalom, 2002; p. 48).
L’orientamento psicoanalitico, direzionato al profondo e all’attenzione per le dimensioni simboliche dell’esperienza umana, pare faticare nel conciliarsi con il mercato odierno, con il quale i giovani terapeuti, ma anche i loro maestri, seppure tramite modalità differenti, devono inesorabilmente confrontarsi. Esso pare costituito perlopiù di componenti di immediatezza e intuizione, in cui il pensiero sembra che a volte debba essere quasi messo in secondo piano, a beneficio di parametri ben lontani dall’introspezione e dalla riflessione critica.
Questa logica rischia di produrre uno stridente accostamento tra gli importanti carichi di lavoro che spesso caratterizzano il quotidiano dei terapeuti e la cultura psicoanalitica del prendersi cura. Sia i botteganti che i bottegai possono confrontarsi con la difficoltà a conciliare il paradigma analitico con la “necessità di stare nel mercato”1.
Essa si collega alla questione del tempo, della rapidità e della performance all’interno degli studi professionali e degli ambiti istituzionali, con il rischio che possa emergere una “rappresentazione […] da dopolavoro”2.
Si tratta di una logica che si pone in qualche modo in antitesi rispetto a quella della bottega, ispirata invece a un “modello di cura che ha il torto di consumare molto tempo nel suo svolgersi” (Sassolas, 2021; cit. in Alba et al., 2023), e maggiormente accostabile, attraverso
1 Espressione usata da Benedetto Gustini nel suo scritto.
2 Espressione usata da Gabriele Mignosi nel suo scritto.
un’iperbole, all’alienazione che Charlie Chaplin ben rappresenta nell’immagine della catena di montaggio con gli orari prestabiliti, i pezzi osservati uno alla volta in assenza di una costruzione di insieme e di senso3.
La rotta che pare emergere attraverso i lavori dei gruppi consiste in una costruzione di un’alternativa, nonostante ed attraverso le pressioni delle dimensioni economiche, che organizzano le vite ed il presente di ciascuno. Nella visione della bottega immessa dentro una logica di mercato potrebbe risiedere la peculiare caratteristica della storia che riguarda botteganti e bottegai, in grado di differenziarsi dall’omologazione alla logica del profitto o dalla sua completa negazione, provando così ad abitare la questione antinomica.
In tal senso, il pensare insieme può rappresentare una logica in grado di dare un’alternativa alla tentazione di puntare a sbancare la concorrenza, rischiando di fare una bancarotta come esseri umani.
E allora come si abita l’antinomia del mercato e della bottega?
Quindi se il lettino ora sta in fabbrica, non ci resta che essere Charlie Chaplin?
3. Antinomia 2: autorizzarsi-autorizzare
Un secondo livello antinomico riguarda la possibilità di riconoscersi e riconoscere, nel corso ed al termine della formazione in psicoterapia, la possibilità di abitare il ruolo professionale ed animare le sue funzioni cliniche e relazionali.
La formazione alla psicoterapia è lunga e, per impostazione
3 Questo passaggio fa riferimento alla celebre scena del film “Tempi moderni” (“Modern times”), scritto e interpretato da Charlie Chaplin nel 1936.
epistemologica, ne riconosciamo l’interminabilità. È necessario, tuttavia, trovare un equilibrio tra il lanciarsi in direzioni per cui non si è preparati e il non sentirsi mai sufficientemente pronti. Nei gruppi è emersa la similitudine tra la formazione attraverso l’acquisizione di tecniche e l’apprendere a guidare, un passaggio che, se svolto in modo ripetitivo e non trasformativo, corrisponderebbe a “dare la patente a chiunque, senza però sedersi a fianco del futuro patentato, dandogli poi comunque il permesso di usare la macchina, ma dicendogli di muoversi solo all’interno del quartiere”4.
Il tempo della bottega, pur non rilasciando un bollino alla sua conclusione, sembra rendere possibile affrancarsi da questa modalità, permettendo di guardare ai propri limiti al di fuori della dimensione della manchevolezza ed attraverso lo stare insieme. Si guarda ad esso come un “salvagente” a cui aggrapparsi, poiché navigare in un mare di informazioni, quelle ricevute dai pazienti e quelle derivanti dalla nostra formazione, spesso è disorientante. Si guarda a supervisori e maestri come “fari che illuminino la rotta per evidenziare i pericoli e i varchi navigabili” e alla “ciurma, il gruppo di colleghi e il gruppo interno, che attraverso l’ascolto e la collaborazione rende transitabile il percorso”5. In bottega si respira un’aria di fiducia e di ascolto, ci si sente profondamente umani nel donare attenzione, ascolto, esperienze.
Esistono però anche alcuni rischi insiti nell’esperienza di condividere un simile percorso, spesso raccontati attraverso il fare la lamentela. Questo modo di affrontare le problematicità pare affondare le sue radici nella modalità orizzontale del pensare e del tramandare, dentro la quale c’è sempre qualcuno che i giovani terapeuti pongono sopra di loro o che sta sopra di essi e, rispetto al quale non sentono di avere altri strumenti. Si tratta di una modalità che ben si concilia con “le istituzioni accademiche, dove si trasmettono e si legittimano esclusivamente saperi e pratiche operazionalizzate, basate sull’evidenza ostensibile e, quindi, (presunte) oggettive e “trasparenti”, ma impersonali e procedurali” (Alba et al., 2023).
Spesso, inoltre, il tema della sterilità del lamentarsi è presente anche nella generazione dei bottegai: si rischia di pensare a ciò che non è possibile più fare, a come sia diverso da un allora lontano nel tempo e che pare solo da rimpiangere, ed appare come paralizzato nella ripetizione.
Solo se condiviso nei discorsi in bottega, quando ci si sporca le mani assieme, sembra possibile non finire con “fare discorsi da nonno”6, bensì far emergere i caratteri comuni al malessere di chi è in formazione e, prevenendo i rischi dell’isolamento, far dialogare i vissuti, incontrare la comune passione per questo mestiere, donando esperienze e non portando solo parole di fatica e frustrazione.
Soffermarsi a dire che cosa c’è che non va bene rappresenta sicuramente un punto di partenza imprescindibile. Ma si tratta di un’operazione che risulta in qualche misura associabile al mettere in evidenza un testo, utilizzando l’evidenziatore. È certamente un passo importante, ma sicuramente non è sufficiente per assimilare quello scritto, in qualche modo accomodarlo rispetto alle precedenti nozioni già presenti nella nostra mente e farne elemento evolutivo verso nuovi equilibri. Notare che qualcosa non va in bottega non porta a criticare o criticarsi “secondo gli occhi dei vecchi maestri, sarebbe rischioso nella possibilità di far sentire inadeguati; il mondo e la psicoterapia non sono più gli stessi.
6 Espressione usata da Ugo Corino nel suo scritto.
Si tratta, dunque, di autorizzarsi e autorizzare a compiere un ulteriore passaggio, creativo e trasformativo, fluido e quotidiano, nella costruzione di senso attraverso il riflettere insieme. E in questo il lavoro congiunto di bottega, bottegai e botteganti sembra sia stato di aiuto. Possiamo dirci come comunità professionale che facciamo fatica, che sbagliamo, almeno nella bottega? Ci vorrebbe anche altrove un’autorizzazione ad autorizzarsi?
4. Antinomia 3: unipolare-multipolare
Il pensiero in bottega deve tendere al multipolare, a differenza di quanto viene prevalentemente proposto in contesti accademici o di formazione professionale. Secondo la logica unipolare, infatti, il mondo si muoverebbe da tempo verso la stabilizzazione e l’affermazione di un unico polo di comando, al quale afferiscono tutti gli altri che, volenti o nolenti, sono accompagnati e a volte spinti a riferirsi ad esso, saturando ogni confronto. E questo echeggia tanto nella vita politica, sociale, economica e culturale del pianeta, quanto nell’apprendimento della psicoterapia. L’impiego di teorie della tecnica “come una sorta di ideologia dietro alla quale nascondere il timore di poter sostare in una zona di incertezza, piuttosto che sentirsi sempre sicuri e vigili nella relazione con l’altro, ha rappresentato e rappresenta un modo per il terapeuta di ostentare sicurezza e sapienza”. (Marinelli & Pezzoli, 2019; p. 187).
L’essere artigiani implica invece mettere insieme capacità ed
7 Espressione usata da Angela Maiorana nel suo scritto.
esperienze, concedendosi il tempo e la possibilità di sbagliare, consapevoli che si arricchiranno nel confronto. Nella bottega ci si racconta, ci si espone, si fa vedere come si fa, o almeno si confrontano situazioni attuali con situazioni passate; “è un’ambientazione abbastanza diversa dai salotti dove si teorizza o si filosofeggia sul lavoro degli altri”8.
Quello che sembra permettere di accogliere un pensiero multipolare, in bottega, pare essere il rispecchiamento in gruppo, il riconoscimento senza giudizio, facendosi ponte verso una comprensione sentita del prossimo in grado di contrastare la fredda informazione e la fame di risposte e contenuti, della quale si rischia di finire vittime, figli del pensiero e della cultura del nostro tempo.
Mettere al centro degli sguardi il proprio materiale clinico e raccontare del proprio lavorarci svela, talvolta anche a chi la descrive, la propria ipotesi e permette di considerare la possibilità che si riveli sbagliata, aggiungendo ad essa lo scenario di prefigurazioni derivanti dal gruppo. In questo modo diventa possibile tollerare la consapevolezza che l’evoluzione del rapporto con il paziente potrebbe non confermarne alcuna e conservando così più facilmente una posizione insatura.
In bottega esplorare le questioni epistemologiche del proprio formarsi al pensiero clinico risulta fruibile per i giovani terapeuti che sentono possibile porsi in ascolto e imparare dal contatto con le persone più esperte, che allo stesso tempo “non si ergono su cattedre come su piedistalli irraggiungibili, ma che le utilizzano per guardare un po’ più in là, da posizioni più o meno sopraelevate e, quando è il momento giusto, aiutare a salirci, e se serve, anche a riscendere da esse”9.
Poter assumere la posizione di bottegaio, inoltre, preserva anche dai
8 Espressione usata da Ugo Corino nel suo scritto.
9 Espressione usata da Umberto Marrone nel suo scritto.
rischi di una posizione unipolare, promuovendo invece il mantenere viva una dimensione insatura, esplorativa, nella relazione, di entrare in contatto, direttamente o attraverso la matrice del gruppo, con la propria passione per la professione.
Ma Socrate e Platone cosa direbbero?
Oltre a compiacersi, si divertirebbero dando a bottegai e botteganti degli incontentabili?
4. Una questione trasversale: il limite
In tutte le antinomie ricorre la questione del limite, rispetto al quale emerge il suo carattere relativo ed il rischio che, intendendolo come assoluto, si configuri quale ostacolo reale e concettuale al tempo stesso. L’etimologia ci consegna due vertici a partire dai quali guardare al concetto: il sostantivo limes, limitis sembra richiamare un’accezione negativa di confine, che costituisce per l’uomo una barriera invalicabile che echeggia nella mancanza o nella perdita; al contrario, il secondo, da limen, liminis pare rimandare al valore di soglia, di possibilità, di passaggio, di apertura verso nuovi orizzonti. Gli antichi romani riuscivano a cogliere la possibilità dello stare vicini ad un punto di passaggio e, in prossimità delle terre di altre popolazioni, erano soliti costruire strade e reti di collegamento al fine di rendere probabile, attraverso il commercio, l’incontro tanto da rendere talvolta possibile un’espansione territoriale senza ricorrere all’uso delle armi.
Abbiamo provato a guardare al limite attraverso la questione dell’online, ugualmente centrale nello svolgersi della formazione alla psicoterapia e nell’avvio della pratica professionale in questi anni successivi alla pandemia. Il poter stare sul confine, senza percepire solo i rischi di una nuova esplorazione o saltarlo facendo prevalere il fare sul pensare, sembra rappresentare una posizione indispensabile, tanto nel lavoro, quanto nella formazione. Spesso si pensa l’online come una dimensione bidimensionale, associando ad essa una perdita rispetto all’esperienza in presenza. Nei gruppi sembrano affiorare invece espressioni e pensieri radicati in una corporeità umana, consapevole e relazionale che permette di scaldare la freddezza del virtuale. Infatti, come ricorda Corino (2023), è importante tenere a mente la differenza tra formazione e informazione: “la prima è istantanea, facilmente reperibile, improntata al consumo, immateriale. La seconda ha bisogno di fiducia, prossimità, continuità. La trasmissione per essere efficace e non distorta necessita di relazioni profonde, che si istaurano in un tempo lungo. Potremmo dire in una sorta di passaggio dall’emozione al sentimento: da qualcosa che è momentaneo, immanente a qualcosa che struttura una permanenza, una continuità temporale.” Quello che durante l’emergenza sanitaria è stata un’imposizione, “come lo svolgere da remoto i seminari di Fiesole”10, ha permesso di non perdere, nonostante le distanze, la storia trascorsa e quella futura. Pur restando nelle proprie case o nei propri studi, incasellati nei riquadri delle schermate di Zoom, sembra essere stato possibile sentire di “tornare in gruppo, andando da un’altra parte”11, continuando quel processo di trasmissione e confronto nell’esperienza della bottega.
Il limite pare quindi configurarsi come l’elemento che permette di risolvere le antinomie, sottraendo all’inconciliabilità della dicotomia, senza dover far prevalere una delle due posizioni, permettendo di restare in un equilibrio faticoso e precario, ma fertile. Il movimento non
10 Espressione usata da Paolo Guaramonte nel suo scritto.
11 Espressione usata da Martina Ascone nel tuo scritto.riguarda solo chi pensa abitando i territori di confine, bensì i limiti possono, a loro volta, ridisegnarsi con l’azione modellante della teoria e della prassi che, come agenti atmosferici, possono modellare le asperità delle montagne, creando passaggi possibili e più dolci orizzonti.
5. Conclusioni
Questo nostro discorso non può rimanere autoreferenziale, ma deve necessariamente dialogare con alcuni importanti interlocutori.
Pensiamo al contesto analitico storicamente orientato, a cui siamo almeno in parte abituati, e che spesso ci pare impregnato di asettica formalità. Questa, nonostante le sue buone ragioni sul piano storico e istituzionale, sta gradualmente lasciando spazio a radici culturali differenti, maggiormente dialoganti, personali e dinamiche. O, come diremmo noi, “multipolari”.
Ulteriori vertici di dialogo a cui pensiamo in questo senso sono rappresentati dall’interlocutore MIUR e dalle sue istanze didattiche che, come sottolineato da Andolfi (2020; cit. in Alba et al., 2023), promuove “il modello dell’esamificio e delle lezioni accademiche frontali, che impera nei corsi di laurea e che si rischia di riproporre e amplificare (…) nella specializzazione”. Adombrando “l’apprendimento serio e prolungato in un quadriennio di una pratica clinica coerente con i presupposti teorici della Scuola prescelta, con una supervisione costante dei casi clinici seguiti e un serio tirocinio all’interno dei servizi pubblici” (ibidem).
Questo dialogo deve necessariamente partire da una propria disposizione psichica che veda al centro la matrice del transito per discostarsi dal solo passaggio dall’essere bottegando al diventare bottegante, o per contiguità concettuale dall’essere docente all’essere bottegaio, e che rispecchi la compiutezza della matrice stessa, passando a rappresentare il nostro stare nel mondo della psicoterapia. Un modo che faccia della fluidità e del movimento le proprie costituenti peculiari e imprescindibili, conservando però una capacità di dialogare con l’altro e con le parti di sé. La stabilità di pochi, ma chiari, vertici, garantita da un incontrarsi in bottega, permette infatti di abitare un presente che pare chiedere, o imporre, di rinunciare a quanto prima ne garantiva l’esistenza anche attraverso aspetti formali, senza temere di sbiadire all’interno di cornici che trasformano nella direzione dell’accelerazione e della fluidità.
Sembra così possibile per i giovani psicoterapeuti e, al tempo stesso, per chi cura la loro formazione e si deve preoccupare di poter garantire la bottega, accostarsi in modi nuovi e sufficientemente adeguati alla sofferenza umana del nostro tempo. In questo modo sarebbe possibile rinunciare alla tecnica dei manuali, come all’inesplorabilità del talento, per abitare con umanità il complesso ed interminabile intrecciarsi tra crescita personale e professionale.
In chiusura di questa storia, frutto di un pensiero messo in comune tra tre colleghi che si trovano in diversi momenti del loro bottegare, ci siamo posti alcune domande, che qui vogliamo proporre ad ogni lettore. Siamo abituati, data la nostra formazione e la nostra indole, a transitare di gruppo in gruppo, di matrice in matrice, di bottega in bottega, e testimoniamo l’arricchimento che questo modo di approcciarci al mondo e alla psicoterapia apporta a ciascuno di noi.
Siamo in grado di uscire dalle nostre zone di comfort e usare lo smarrimento come punto essenziale per partire o ripartire da esso?
Abbiamo il coraggio di sostare nella complessità, accettando la scomodità delle antinomie che la caratterizzano, in qualità di parti integranti e non necessariamente da risolvere?
Ci sentiamo sufficientemente sicuri da saper riconoscere i nostri maestri tra colleghi di diversa esperienza o di diversa matrice e, forse soprattutto, trovarli anche tra i nostri pazienti?
Bibliografia
Alba, S., Corino, U., Di Stefano, G., Profita G., & Ruvolo, G. (2023). La trasmissione tra le generazioni. Rivista Plexus, 15(1-2), 8-26.
Corino, U. (2023). Ripensare la formazione: dalla bottega alla standardizzazione. (ovvero dai polli ruspanti a quelli non allevati a terra). Rivista Plexus, 15(1-2), 131-152.
Marinelli, P., & Pezzoli, F. (2019). Atlante illustrato di gruppoanalisi.
Edizioni Anicia.
McWilliams, N. (2021). La supervisione. Trad. it. Raffaello Cortina, 2022.
Pontalti, C. (2011). Imparare un mestiere: La bottega della formazione con gruppi di allievi. Rivista Plexus, 4(1), 135-149.
Yalom, I. D. (2002). Il dono della terapia. Trad. it. Neri Pozza Editore, 2014.
Nota su “La bottega, i botteganti e i bottegai”
Gabriele Profita
Il lavoro pone alcuni interrogativi importanti, forse non sufficientemente sviluppati dati i limiti che un lavoro per la rivista impone, ma sufficientemente “aperti” per consentire approfondimenti e ulteriori riflessioni. Ho trovato molto stimolante il testo e provo ad aggiungere qualcosa, poco, anche se meriterebbe un dibattito più puntuale e spero che sia continuato, dentro e fuori dalla bottega.
Breve, ma significativa quella che appare come una premessa dove si fa riferimento alla storia antica d’Italia, le Corporazioni e le Botteghe, che si ricorderà erano tipiche d’Italia dei Comuni, le prime corporazioni risalgono al 1150-1200 e come ricordato nel testo si componeva di botteghe nei vicoli affollati di Firenze, dove era possibile lavorare e vendere le proprie merci.
Potremmo considerarle….
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…anche come i “Passages” esplorati da Walter Benjamin a proposito della Parigi del XIX e XX secolo dove nella struttura labirintica della città sorgevano luoghi di vita, esterni e interni, propri della vita comunitaria.
Ebbene cosa sono oggi le botteghe nel mondo iper-moderno degli anni 2000? Questo sembra essere l’interrogativo della riflessione del testo. E come possono risultare ancora vitali oggi? Con quali configurazioni adattate a quello che viene definito post-modernità?
Intanto gli autori ne mostrano le antinomie o contraddizioni riassumibili nei termini: 1. Bottega vs. mercato, 2. Autorizzare vs. autorizzarsi, 3. Unipolare vs. multipolare. Insieme ad un finale che riguarda il senso del limite. Vediamone alcuni aspetti.
La prima antinomia che sembra la più generale, riguarda la macrostruttura economico sociale come risulta essere oggi associata agli echi del passato. La bottega si richiama ad una economia e ad una società ancora premoderna, culturalmente e geograficamente locale, mentre il mercato odierno non ha nulla di limitato, anzi riguarda il mondo intero. Sono due scale diverse in cui i protagonisti, le professioni, le merci hanno caratteristiche diverse. La prima si affida all’ingegno dei singoli: Leonardo ebbe come maestro il Verrocchio, ma rivolse lo sguardo anche al Pinturicchio e ai maestri fiamminghi. La bottega se non vuole produrre imitatori, semplici replicanti, necessita di rivolgere la mente e lo sguardo altrove, per ricercare nuove idee e nuove tecniche, per trovare soluzioni a nuovi problemi prima non presenti.
Prima questione che richiama anche il punto 2. Si può rimanere nella bottega che ci ha dato origine? Oppure occorre guardare il fuori? Mi riferisco allo spazio inesplorato e non familiare dove si praticano lingue e linguaggi non consueti, dove occorre privarsi di quella confort zone, che assicura una temporanea o illusoria sicurezza ma che favorisce solo rapporti endogamici e alla fine le “lamentele” a cui si fa riferimento. Abbiamo sempre parlato, e Pontalti ne è il rappresentate più autorevole, di saturazione nel pensiero familiare e poi frequentiamo famiglie professionali rassicuranti ma non innovative, senza potercene allontanare? Insomma di quale bottega parliamo e in relazione a quale mercato? Forse vale la pena riflettere sulla difficoltà di esplorare la diversità e non solo la familiarità. Non è venuta l’ora di avventurarsi nel mondo, dal momento che il mondo, in modo turbolento e a volte poco comprensibile, muta con velocità e con scarti imprevedibili?
Come ci si può autorizzare se incombe sempre l’ombra del padre? Rimanere nella cerchia dei ‘fratelli’ non finisce con il generare invidie, lamentele, senso d’impotenza e continue richieste di conferma e autorizzazione? Se ci si percepisce sempre in formazione e mai pronti ad affrontare il proprio cammino come ci si può avventurare fuori dalla casa? Si sa, la strada è sempre piena di pericoli e di incertezze, ma perché non si è mai pronti per attraversare la soglia e avventurarsi verso il fuori?
Anche l’uni-polarità o la multipolarità appartiene allo stesso ordine d’idee. Confrontarsi è sempre indispensabile e aiuta sempre nella soluzione dei problemi, ma è sempre nella diversità radicale che il confronto risulta più produttivo e realmente efficace e soprattutto nell’esplorazione di altri gruppi e di altri mondi. Gli altri mondi possono essere intesi come Leopardi, chiuso, prevalentemente, nella sua biblioteca di Recanati, ma sempre in contatto con luoghi, culture e lingue diverse. La multipolarità deriva da ciò. Altrimenti si rimane chiusi nel conforto e nella lamentela.
La trasmissione tra le generazioni: una questione tra Legge e desiderio
Sebastiano Vinci
L’autore affronta diverse questioni legate alla fragilità dei legami tra le generazioni. Si sostiene che il periodo storico caratterizzato dalla fragilità dei legami tra le generazioni è evidente non solo per gli operatori della salute mentale ma anche per coloro che lavorano con le problematiche della soggettività. Il movimento del ’68 rappresenta un momento di rottura e trasformazione che ha influenzato i ruoli e le rappresentazioni di genere, ma ha anche comportato una crisi della funzione paterna. L’articolo sottolinea l’importanza della parola come veicolo di trasmissione generazionale e valuta l’eccesso di ribellione che ha portato al rifiuto dei vincoli sociali e civili. Si afferma che la crisi della trasmissione dell’esperienza e del sapere è diventata un sintomo della società moderna fondata sulla logica capitalistica, che privilegia il godimento senza limite. Infine, si sottolinea l’importanza di riconoscere il valore della parola e del desiderio nell’ambito della trasmissione generazionale.
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The transmission between generations: a matter between Law and desire.
The author addresses the conditions that can lead to fragility or even rupture in transgenerational relationships. It is widely acknowledged that we are currently experiencing a period characterized by the fragility of intergenerational bonds. Symptoms such as addictions, eating disorders, pathological dependencies, and panic attacks are manifestations of this fragility. The author traces the origins of this critical moment back to the social changes of the 1968 revolution, which challenged traditional family structures and introduced a sense of discontinuity. However, this revolutionary movement also gave rise to a rejection of the paternal function and a disregard for the limits imposed by societal and cultural norms. This rejection of the Other’s word and the pursuit of absolute freedom without social and civil constraints are seen as perverse aspects of today’s society, which is characterized by an excessive focus on individual pleasure and a disregard for the value of transmission and tradition. The crisis of transmitting experience and knowledge has become a symptom of our modern society, rooted in a capitalist discourse that prioritizes limitless enjoyment and denies the value of truth and the transformative power of language. Recognizing the importance of the word and its role in the transmission of desire is crucial in bridging the gap between generations and allowing for the continuity of history and culture.
Intergenerational transmission; Law (Lacan); Enjoyment (Lacan).
Questi pochi spunti di riflessione sono il frutto della lettura del testo che S. Alba, U. Corino, G. Di Stefano, G. Profita e G. Ruvolo hanno redatto come editoriale a questo numero monografico di Plexus. Cercherò, con tutti i limiti che la brevità di questo mio intervento comporta, di entrare nel merito di alcune questioni che l’editoriale mi ha sollecitato e su cui ho cercato di riflettere. Il testo riporta un riferimento esplicito ad un lavoro di Kaës del 1993, “Trasmissione della vita psichica tra generazioni” e, nello specifico, ad un passaggio che entra nel merito di ciò che può creare le condizioni per l’instaurarsi di un punto di fragilità, se non di rottura, nei legami transgenerazionali, “un momento critico della storia”, che l’autore, individua proprio come sua causa.
Che si stia vivendo ed attraversando un periodo storico caratterizzato dalla fragilità dei legami tra le generazioni è un dato con cui, non solo gli operatori che si occupano di salute mentale, ma anche tutti coloro che lavorano con le problematiche relative alla soggettività, hanno avuto modo di constatare. La clinica ce ne ha dato e ce ne dà quotidiani segni evidenti, purtroppo, con l’apparizione fenomenica di un corteo sintomatico che, in precedenza non aveva avuto modo di manifestarsi con tale virulenza. I cosiddetti sintomi contemporanei, le tossicomanie, l’obesità, le anoressie e le bulimie, le varie forme di dipendenza patologica e i cosiddetti attacchi di panico sono una loro manifestazione. Ma, tentando di ricostruire i tempi e di individuarne le scansioni che possono aver contribuito a determinare questo momento critico della storia, durante il quale si sono poste le basi per lo strutturarsi di quel punto di fragilità e la conseguente frattura nella trasmissione generazionale, il ’68 e la crisi che ne è derivata per il sembiante maschile, credo che rappresenti quel punto di repere, a partire dal quale, è possibile individuare l’inizio di quel momento critico cui si faceva riferimento. Vorrei però, non incorrere in un possibile fraintendimento. Per tale motivo cercherò di articolare un po’ di più la questione che mi accingo ad affrontare. Che il ‘68 sia stato un fenomeno politico di inestimabile valore rivoluzionario che ha permesso una ridefinizione dei ruoli, delle funzioni e delle rappresentazioni mentali e culturali dei cosiddetti generi maschile e femminile, credo sia proprio innegabile. Che il ’68 sia stato quell’anno che ha fatto precipitare e reso possibile tutto questo è da leggere come la prova che i processi storici trovano nella loro attuazione degli eventi, un momento di non ritorno che ha, nell’esperienza del precedente, la sua preparazione. Il ’68, dunque, è stato ed ha rappresentato l’emergenza di un movimento culturale dal potenziale trasformativo che solo con il maggio francese ha avuto modo di esplodere e di sancire quel tempo che non poteva più aspettare di manifestarsi. Il ’68, inoltre, ha comportato una rottura radicale rispetto alla tradizione teologica e borghese del pater familias, che benché traumatica, nell’après coup, ci ha permesso di considerare con altra visione delle cose temi come la continuità fra le generazioni, l’eredità, la tradizione e la loro trasmissione. Così, è impossibile non ricordare e non riconoscerne il grande valore progressivo che ha avuto nel mondo, così come in Italia, questo particolare momento storico che ha permesso, negli anni successivi, la promulgazione della legge sul divorzio, il nuovo diritto di famiglia, l’istituzione dei consultori familiari, la legge di regolamentazione dell’aborto, la legge del 1977 sulla parità nel lavoro, solo per citarne alcuni. Con il ’68 si apre, inoltre, la possibilità di una sorta di soggettivazione della propria provenienza, che nel suo prendere forma, espone il soggetto al rischio del misconoscimento di quell’insegnamento fondamentale che implica che l’esistenza è sempre iscritta in un campo che la eccede e che la trascende. Il non tenere conto di questo ha portato a quelle derive ideologiche che si sono concretizzate con la proliferazione dei falsi miti autogenerativi della soggettività e del loro modo di presentarsi, attraverso il culto iper- moderno dell’indipendenza, con la ricerca di una esasperazione dell’autonomia o, per esempio, del pensarsi genitori di sé stessi. Tutte versioni di una libertà che ha nel solo immaginario il loro fondamento e che sono il principio del discorso capitalista.
Oggi, però, riusciamo a comprendere che, questo movimento politico ha comportato anche (ed è di questo che qui si vuole discutere) una certa messa in crisi della funzione paterna, espressione di un modo di essere anche identitario ma, fondamentalmente, principio regolatore e normativo che trova supporto e riconoscimento grazie al desiderio della madre. Lacan, già nel 1938 aveva registrato tutto questo nel suo testo “I complessi familiari nella formazione dell’individuo”, parlando proprio del “declino sociale dell’imago paterna. Declino condizionato dalla ripercussione nell’individuo di effetti estremi del progresso sociale, declino che si nota, soprattutto ai nostri giorni, nelle collettività più provate da questi effetti: concentrazione economica e catastrofi politiche” (Lacan, 2005; p. 51), declino dell’imago paterna che trova un suo modo suggestivo di articolazione nel concetto espresso con “l’evaporazione del padre”, processo, a dire il vero datato, visto che di ciò si parla già con l’avvento della scienza moderna, con Galileo, con la messa in questione di Dio e dei suoi sostituti. Proprio su questo processo di messa in questione, Michel de Certeau, nel corso del Congresso dell’École Freudienne de Paris dell’11 e 12 ottobre 1968, propose con un suo intervento, una lettura diversa del fenomeno: piuttosto che parlare di sostituti, utilizzò il sostantivo “sostituzioni” spostando, di fatto, la questione dal singolo soggetto o sostituto su concetti simbolici, quali possono essere, per esempio, le Nazioni Unite o la democrazia stessa. Alla suggestione del gesuita Lacan, con un intervento di poche righe, rispose non solo dando per acquisita la questione dell’evaporazione del padre, ma rilanciando sugli effetti che questa, avrebbe prodotto: una sorta di cicatrice che definì con il termine di segregazione, termine che permette di comprendere bene la funzione che la questione paterna, in gioco anche nel campo della trasmissione, produce: a fronte di una segregazione che permette la regolamentazione del godimento, dove ognuno sta al proprio posto e che qui semplifico dicendo che un godimento regolato comporta che la madre stia al suo posto, così come i figli ed il padre che ne diventa, in tal senso, il garante proprio di questa regolamentazione (sappiamo come la clinica moderna oggi fa i conti proprio con questa fluidità di posizioni, con l’assoggettamento al godimento dell’Altro, un godimento spesso senza limiti), vi è un altro aspetto della segregazione, decisamente più problematico, che comporta una sorta di universalizzazione del mondo, responsabile di ben altro tipo di segregazioni, la separazione delle razze, l’isolamento, l’esclusione dai rapporti o dai contatti con gli altri. “Io penso che ciò che caratterizza la nostra era”, intervenne Lacan al Congresso, “e non possiamo non accorgercene – è una segregazione ramificata, rinforzata, che fa intersezioni a tutti i livelli e che non fa che moltiplicare le barriere” (Lacan, 2003; p. 9).
Ovviamente all’esperienza sessantottina non possono essere addossate responsabilità che non le competono: il ’68 ha anche significato il presentificarsi della possibilità di una rottura della cultura del familismo allora in auge e l’introduzione di un elemento discontinuo di differenziazione, che è stato l’insegnamento fondamentale di quegli anni. Il processo di soggettivazione, infatti, si fonda, non soltanto con l’assunzione su di sé del pesante fardello dell’eredità, ma perché un gesto di rottura, un passo traumatico di conflittualità discontinua venga a compiersi come atto. Il ’68, in nuce, era ed è stato anche questo, un conflitto fra generazioni che ha prodotto delle differenze. A fronte di tutto questo, però, quell’esperienza rivoluzionaria e di rottura nei confronti del ripetersi stagnante dello stesso, ha offerto il fianco ad un fallimento, quello derivante da un eccesso di rivolta che ha fatto sì che si potesse ritenere di fare a meno dell’eredità del passato e del suo tramite, la parola, per mezzo della quale esso può essere trasmesso e messo in questione. Il rifiuto della parola dell’Altro e del limite che questa rappresenta, ha fatto sì che si credesse di poter ottenere una libertà assoluta, senza alcun vincolo sociale e civile. È questo il tratto perverso che caratterizza la società di oggi, dove tutto si ritiene possibile e dove l’imperativo superegoico espresso con il “Godi!” esprime quel non tenere conto del limite che solo se considerato come tale può permettere il suo superamento. Lacan esprime questo concetto con una frase che è magistrale. Nel Seminario XXIII del 1975- 76, il Sinthomo, Lacan ebbe a dire che, “del Nome del Padre si può fare a meno”. Se ne può fare a meno a condizione di servirsene” (Lacan, 2006, p. 133) esprimendo bene qual è il motore della trasmissione generazionale, quell’ alleanza possibile fra legge e desiderio che, nel riconoscere la parola dei padri, ed il valore trasformativo della “parola piena” (Lacan 1974; p. 247), la parola soggettivata, fa sì che non si compia quella frattura insanabile con il passato ma ne permetta, piuttosto, una transizione dove il valore della trasmissione della storia e della cultura, in cui “la famiglia gioca un ruolo primordiale (…) e trasmette delle strutture di comportamento e di rappresentazione il cui funzionamento si estende oltre i limiti della coscienza”, dato che “ “la famiglia stabilisce una continuità psichica tra le generazioni, la cui causalità è di ordine mentale” (Lacan, 2005; p. 51), possa compiersi. È dovuto al non riconoscere il valore di verità della parola, che la crisi della trasmissibilità dell’esperienza, del sapere e del sapere della psicoanalisi è diventato, al giorno d’oggi, un sintomo, sintomo della nostra società moderna, fondata su quella particolare declinazione del legame sociale che chiamiamo discorso capitalistico e della logica che lo fonda. Logica che fa prevalere l’assenza del limite, dell’affermazione del godimento a tutti i costi anche e soprattutto senza tenere conto dell’Atro, godimento questo che è reso da Lacan con il termine di “uniano”, dove vi è identificazione dell’Altro con l’Uno (Lacan, 2013; p. 522). La parola, non più riconosciuta come portatrice e veicolo di verità, anche se è una verità parziale, “Io dico sempre la verità: non tutta, perché a dirla tutta non ci si riesce. Dirla tutta è materialmente impossibile: mancano le parole. È proprio per questo che la verità attiene al reale” (Lacan, 2013; p. 505), dice Lacan in apertura dell’intervista monologo rilasciata alla televisione francese nel 1973, la parola se riconosciuta come portatrice di un sapere che articola qualcosa dell’ordine del desiderio e, per questo, trasmissibile – essendo il desiderio del soggetto, per definizione, il desiderio dell’Altro – ha la possibilità di annodarsi alle generazioni, di costruire un campo del sapere che può sì comportare la rimozione e la sua denegazione, meccanismo che presuppone, in principio, l’assunzione di qualcosa dell’ordine della verità scomoda per il soggetto, anziché quel processo che Freud evidenziò per la prima volta nel testo sulle “Neuropsicosi da difesa” (Freud, 1898), poi nel caso Schreber (Freud, 1910) e in quello dell’Uomo dei lupi (Freud, 1914) e che chiamò Verwerfung, la forclusione, e che proprio nel suo non riconoscere la funzione del Nome del Padre ha, nel rigetto del sapere dell’Altro, l’effetto devastante della psicosi. Nel 1969, Lacan, nell’indirizzare a Jenny Aubry le sue “Due note sul bambino” ha avuto modo di ricordare, che “la funzione di residuo che la famiglia coniugale nell’evoluzione delle società sostiene (e nello stesso tempo mantiene), mette in valore l’irriducibile di una trasmissione – che è di un altro ordine di quella della vita secondo la soddisfazione dei bisogni – ma che è di una costituzione soggettiva, che implica la relazione a un desiderio che non sia anonimo” (Lacan, 1987; p. 23). Annodamento della Legge, incarnata dalla funzione del Nome del Padre, con il desiderio quindi, senza il quale qualsiasi trasmissione di saperi, qualsiasi tentativo di andare al di là dell’Edipo, troverà nel suo fallimento, il proprio limite.
Bibliografia
Freud, S. (1894). Le neuropsicosi da difesa. In Opere, vol. 2, Boringhieri.
Freud, S. (1910). Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides) descritto autobiograficamente (Caso clinico del presidente Schreber). In Opere, vol. 6, Boringhieri.
Freud S. (1914). Dalla storia di una nevrosi infantile (Caso clinico dell’uomo dei lupi). In Opere, vol. 7, Boringhieri.
Lacan, J. (1974). Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi. In Scritti, vol. 1, Einaudi.
Lacan, J. (1987). Due note sul bambino. In La Psicoanalisi n. 1, Astrolabio.
Lacan, J. (2003). Nota sul padre e l’universalismo. La Psicoanalisi n. 33, Astrolabio.
Lacan, J. (2005). I complessi familiari nella formazione dell’individuo, Einaudi.
Lacan, J. (2006). Il Seminario. Libro XXIII. Il Sinthomo (1975-1976). Astrolabio.
Lacan, J. (2013). Televisione. In Altri scritti, Einaudi, Torino.
Interviste
Pier Francesco Galli
Intervista a cura del Comitato direttivo di Rivista Plexus (01/10/2022)
Pier Francesco Galli è una delle figure storiche della psichiatria e psicoterapia italiana. Psichiatra e psicoterapeuta, è stato colui che ha contribuito in modo rilevante ad introdurre i testi fondamentali sulla psicoterapia, in particolare quella psicodinamica, in Italia. Ha infatti diretto dagli anni ‘60 agli anni ‘90 del secolo scorso le collane di psichiatria e di psicoterapia della Feltrinelli, della Boringhieri (divenuta poi nel tempo Bollati Boringhieri) e dal 1967 la rivista Psicoterapia e Scienze Umane. Un vero punto di riferimento, di pensiero critico e di connessione tra scienze umane e psichiatria sugli sviluppi delle psicoterapie ad orientamento dinamico a livello internazionale. Per molti della nostra generazione (anche per ragioni di minor numerosità) è stato inevitabile conoscere direttamente nei convegni, incontrarlo nella propria nella formazione o indirettamente attraverso i suoi scritti e dal suo incisivo lavoro editoriale.
Quale miglior testimone, quindi, sul tema della trasmissione della professione psicoterapeutica, soprattutto dopo la formalizzazione del percorso formativo attraverso l’istituzione delle scuole di specializzazione in psicoterapia. Oltre tutto proprio Galli aveva all’epoca preso posizioni significativamente critiche al proposito. Pier Francesco risponde subito con la sua nota disponibilità e attivismo alla nostra richiesta….
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La conversazione che segue (perché questo è stato e non una intervista, anche se la trascrizione non ne può dare interamente conto) è a nostro avviso di grande interesse. Pier Francesco con i suoi 91 anni testimonia di una lucidità, acutezza ed essenzialità rare.
Un distillato di esperienza, di pensiero critico e libero.
Dopo i saluti iniziali e ricordi di incontri passati, il dialogo si avvia sul tema della trasmissione e sui passaggi generazionali riguardo al sapere psicologico e psicoterapeutico di matrice psicoanalitica, avviamo la conversazione con queste domande:
Cosa possiamo pensare della formazione dal punto di vista istituzionale, normativo e fattuale in Italia? Quale l’opinione del prof. Galli sulle scuole di psicoterapia in Italia? Quali pensieri e posizione sulla nascita e l’avvio della formazione alla psicologia e sull’andamento della formazione alla psicoterapia psicoanalitica…
Le domande a riguardo sono molte e con tante implicazioni.
Qual è la mia posizione principale sulla trasmissione? Io sono iscritto sia all’Ordine dei Medici, sia all’Ordine degli Psicologi. Laureatomi nel 1955, sono entrato nell’Ordine dei Medici nel 1956, ho deciso che con la fine di quest’anno (compirò 91 anni) mi cancellerò da entrambi gli ordini, dal momento che non accolgo da tempo nuovi pazienti e terminerò quelli in essere.
Dirò qualcosa tenendo conto sia della mia esperienza di direttore di Psicoterapia e Scienze Umane, sia della mia esperienza personale.
Fin dall’inizio, io ebbi una posizione netta: la psicologia è una disciplina scientifica (e questo è il punto di forza delle psicologie), la medicina no, è una pratica che si serve di varie discipline.
Aspetto questo che rende importantissimo il collegamento e il legame tra la cultura formativa strutturale accademica e la professione. Le due cose non possono essere disgiunte.
Io ritengo che questo legame sia scomparso, e che l’ordine professionale rappresenti la disciplina. Questo è un errore fondamentale.
Questa mia posizione iniziale, che ho portato avanti duramente nei vari contesti istituzionali in cui mi sono ritrovato (ad es. nell’ambito delle Commissioni Ministeriali), confliggeva con le altre posizioni prevalenti, perlopiù orientate a esercitare il controllo e il potere sugli altri (cosa che trovo assurda), ritenendo che le professioni dovessero essere protette da numerosi presunti “cialtroni”.
[Commenti su questi passaggi, sulla crisi e normativizzazione, burocratizzazione attuale… cosa ci è successo e cosa non abbiamo capito?]
Nella mia esperienza, frequentando molto la base [a proposito del controllo], trovavo esattamente il contrario: un gran numero di onesti professionisti!
Era inutile cercare di mettere barriere, giacché il vero cialtrone le avrebbe aggirate! Mentre all’inizio, iscrivendomi all’Ordine dei Medici nel 1956, sentii un senso di casa, di protezione (nella mia famiglia siamo in tanti a essere medici, a partire da mio padre e mio fratello), nel corso degli anni questo sentire è andato cambiando.
Entrare nell’Ordine degli Psicologi costituì, ai tempi, una sorta di fuga da medicina; tra l’altro mi iscrissi tra gli ultimi (seguendo in questo altri colleghi come Alberoni, Spaltro, Quadrio).
Da allora, la mia posizione scientifica, espressa anche dalle ricerche che feci in quel periodo (dedicate alla percezione soggettiva misurabile della soglia), richiama alla possibilità di misurare quello che chiamiamo la “impressione” e che però va lasciata dispiegare in tutta la sua portata.
Ho da poco fondato una rivista, “Psicoanalisi e dintorni”, per la quale ho proposto la rubrica “Minuzzaglie”, all’interno della quale ciascuno mette delle micro-cose con cui se l’è cavata quando non sapeva che fare.
Se parliamo di formazione, il discorso deve riguardare le cose che si fanno, non la informazione. Abbiamo il compito preciso di indicare letture chiave, ma poi dobbiamo condurre gruppi di lettura, nei quali si può stare anche 10 ore su tre righe. Attraverso il cogliere la logica interna di ogni elemento, entriamo nella metodologia mentale di costruzione. Uno dei titoli che ho usato più spesso, infatti, è “Pratica clinica e costruzione di teoria” (Galli, 2002).
C’è inoltre un mio capitolo all’interno di un testo (Galli, 2012, 2020), nel quale affronto, tra gli altri, i temi della costruzione dell’identità terapeutica e del metodo, della tecnica e della teoria della psicoanalisi e della psichiatria.
Per ciò che concerne la formazione, in quel testo indicavo tre luoghi importanti per la formazione (Galli, 2012; p. 55):
- dal parrucchiere, per imparare lo stare in silenzio. Il parrucchiere che serve un cliente, non gli chiede nulla, si limita toccare qua e là la testa… è spesso il cliente che si mette a raccontare aspetti della sua vita intima. Se gli si ponesse una domanda, egli risponderebbe già con una struttura. Andando dal parrucchiere, lo psicoterapeuta può imparare questa cosa qua. È il criterio che io chiamo della “doppia anamnesi”: una anamnesi è quella in cui si fanno domande, alle domande l’intervistato risponde, Ma mentre fai questo, ogni tanto, di straforo, come se capitasse per caso, butti lì una questione che fa rispondere subito su un altro livello, e lì allora entri davvero nell’intimità; questo fa sì che l’incontro diventi quello che dice Spaltro il “bellessere” e la “pastità” (proprio nel senso del cibo). A un certo punto, occorre che l’altro senta questo odore di casa.
- dal ciabattino, per imparare come accostarsi con rispetto e in modo non Se entri nella bottega di un vecchio ciabattino, e chiedi di avere riparata una scarpa, quello ti risponderà di ripassare fra un mese. Perché? Questi stanno dentro una specie di antro, piccolissimo, con lo sguardo concentrato sul banco di lavoro. Se invece di entrare, ti fermi sulla soglia e non dici nulla, il ciabattino a un certo punto alzerà la testa e ti guarderà: a quel punto lo potrai salutare. Dopo un po’, sarà lui a dirti di dargli la scarpa da riparare, e a quel punto lui amerà quella scarpa come la ami tu. Solo così si può entrare nel mondo autistico.
- dal ferramenta, per imparare a non essere nessuno. Tu entri in un ferramenta per chiedere una vite. L’operaio in tuta di lavoro sarà subito servito mentre tu, con la tua vite in mano, davanti al bancone in attesa per incontrare qualche sguardo, cerchi di catturare l’attenzione. Finalmente, ti daranno retta, ma ti sentirai chiedere una serie di dettagli ai quali non sai Sei diventato, e ti senti, nessuno. Questo è decisivo, perché se sei importante, l’altro ti deve buttare giù. Tu lo devi incontrare da sotto, non da sopra.
[risate e stupore … la temperatura del dialogo sale… alcuni aneddoti e qualche riferimento…]
La politica ordinistica, alla fine, col discorso del comando e del controllo “su”, anziché del “supporto ai” colleghi, è diventata sempre più nemica, e non amica. È sempre più attenta a vedere se hai rispettato le regole (ad es. se hai conseguito gli ECM).
Il discorso è in che misura la formazione è fatta innanzitutto dall’esempio. Dobbiamo parlare dei casi clinici, il docente deve fare vedere come si muove, gli allievi devono poterti vedere, devono potere discutere, attraverso i gruppi.
Nel mio modo di fare formazione alla clinica (in questi decenni, in otto regioni differenti e in decine di Servizi pubblici diversi), il mio punto di forza era lavorare attorno a un caso, portato da uno chiunque dell’equipe. Questo è importante perché nei contesti locali, ad esempio l’infermiere, che di solito è del posto, in passato era stato compagno di scuola di quello che oggi è un paziente. Quindi, è in grado di raccontare veramente tutta una serie di cose, di come era allora, di come l’ha visto adesso.
Si raccoglie tutta questa cultura e su questo si crea un gruppo che cura. Psicoterapia significa un contesto curante, innanzitutto, in cui il singolo è un trainante che però deve man mano verificarsi con gli altri.
Quindi, ritengo che qualsiasi sia l’indirizzo che si vuole seguire, il docente deve comunque mostrare cosa fa quando ha in trattamento un paziente; lo studiare – al limite – rovina la spontaneità del curante. Come tempo fa, dicevamo Benedetti ed io, il lavoro individuale e di gruppo con lo psicotico offrono una serie di informazioni su come organizzare il contesto psicoterapeutico. In questo senso, al limite, sul piano individuale, psicoterapia è quello che in quel momento è il miglior rapporto col paziente; esso si può realizzare con l’OSS, con l’infermiere, o anche con la signora della cucina.
La partita si gioca anche, ad esempio, nel momento in cui il paziente a colazione un giorno desidera quattro fette biscottate invece delle due previste. In questa direzione, io ho trovato molto bello il testo di Milone (2021), che racconta davvero come faceva questo collega. È come le fai le cose, che fa la differenza.
[Partire dalle pratiche, imparare e ascoltare le persone vicine al paziente–l’infermiere, l’educatore… le esperienze di deistituzionalizzazione, cosa non abbiamo fatto… e oggi?]
C’è tutta una serie di falsificazioni che si sono accumulate, su cui secondo me c’è stata una responsabilità accademica, con la sua suddivisione in branche di sapere, sganciate dalla parte professionale. Io ritengo che quest’ultima occorra riagganciarla sulla pratica, non in maniera astratta. Oggi noi abbiamo un’ottima manualistica (cita Semerari ma non specifica quale testo), di informazione ce n’è tanta, e io stesso ho fatto molto a riguardo, coordinando le prime collane di settore (per Feltrinelli dal 1959, e per Boringhieri dal 1964: Galli, 2006).
Però, i veri libri di psicoanalisi sono fatti di pezzi di articoli di uno che ha passato una vita a indagare, diversamente da chi si mette lì a tavolino a scrivere un libro: questi sono libri sulla psicoanalisi e non di psicoanalisi.
Occorre trasmettere un modo di ragionare, non un cumulo di informazioni. Devi implicarti, raccontare quello che fai, e quindi parlare di pratica clinica.
Formazione nel nostro campo è presenza, devi metterci davvero la faccia, e verificarti con quelli che in quel momento ti possono anche contestare.
[Ci sono alcuni riferimenti ai gruppi di discussione con alcuni colleghi in Svizzera, il Seminario Psicoanalitico di Zurigo sin dai tempi di F. Parin e F. Morgenthaler, al Gruppo di Psicoterapia e Scienze Umane di Bologna, ed altri].
Con OPIFER, di cui sono presidente onorario, stiamo raccogliendo le storie dei gruppi di colleghi che in questi decenni si sono trovati a confrontarsi periodicamente su casi clinici, e stiamo cominciando a pubblicarle.
[Lo scambio tra il prof. Galli e i partecipanti all’incontro passa poi per una fase personale: dallo stato di salute, alla conclusione delle ultime terapia, alla pensione. Oscilliamo tra la fine di un percorso professionale e le passioni coltivate – le macchine sportive, il gioco del calcio, le amicizie, alcune zingarate… Aumenta qui la sua inflessione napoletana…]
Sono le esperienze che fai nella tua vita che contano molto, anche per la tua formazione come terapeuta. Per me formazione alla psicoterapia è presenza ed esempio. Penso a un articolo di Biswanger, tradotto da Danilo Cargnello incentrato sul tema di come e perché funziona la psicoterapia, nel quale c’è un passaggio (una ventina di righe) sul quale ci ho fatto 4 seminari di 4 ore. Era importante perché lì si anticipava la connessione tra la fenomenologia e la psicoanalisi.
[La conversazione continua passando dalla fenomenologia per approdare prima all’ascolto e poi alla funzione del silenzio. Come utilizziamo il silenzio nella formazione. Alla differenza tra silenzio e mutismo sino all’invisibile o come diceva Umberto Eco, una “semiotica dell’assenza”… Per concludersi poi sulla situazione delle scuole di psicoterapia dove ancora una volta in modo sintetico, ma incisivo, il nostro interlocutore esprime il suo pensiero.]
Per me è fondamentale che il silenzio non significa non parlare, significa trasmettere la capacità di tacere, aspettare e interrogarsi. Tu puoi pure parlare stando zitto, un po’ come nella canzone napoletana “silenzio, cantatore”. Voi avete il compito di trasmettere qualcosa che sono i valori fondamentali del nostro mestiere, c’è una grossa responsabilità, perché voi siete la generazione di vero snodo tra quello che è stato l’inizio e quello che sta a diventare.
Noi in fondo siamo artisti dell’indifferenziato. Però fornendo esempi, non costituendo associazioni.
Poi su Umberto Eco: perfetto. Qui arrivi, come fondazione filosofica, a Merlau-Ponty. Non si tratta di applicare le idee. Le idee si prendono come stimolo, per nutrirsi.
Sulle scuole c’è in genere della gente seria, ma ci sono anche quelli che sottomettono l’allievo (e quelle non vanno bene in assoluto).
Non dobbiamo dimenticare niente della vita, perché a stare con la gente lo impariamo dalla vita, e dobbiamo convertirla e implementarla in capacità di relazione. Questo, attraverso l’esempio. E non sai prima cosa può succedere. È quello che è stato chiamato la “meraviglia”, la sorpresa dell’analista, come dice Rank.
Bibliografia
Galli, P. F. (2002). La persona e la tecnica: Appunti sulla pratica clinica e la costruzione della teoria psicoanalitica. Franco Angeli.
Galli, P. F. (2006). In viaggio con i libri: 1959-2006. Psicoterapia e Scienze Umane, 40(3), 719-735.
Galli, P. F. (2012). Racconti di guerra. Psicoanalisi, salute mentale e pratiche istituzionali, ieri e oggi, in Italia. In L. Caparrotta & P. Cuniberti (Eds.), Psicoanalisi in trincea: Esperienze, pratica clinica e nuove frontiere in Italia e nel Regno Unito (pp. 35-57). Franco Angeli.
Galli, P. F. (2020). Racconti di guerra. Psicoanalisi, salute mentale e pratiche istituzionali, ieri e oggi, in Italia. Psicoterapia e Scienze Umane, 54(1), 79-106.
Tre punti di commento all’intervista a Galli
Giuseppe Ruvolo
Galli afferma che la Psicologia è una scienza, mentre la Medicina è una pratica: questo sarebbe un vantaggio per la psicologia. Ma se è una pratica la medicina, lo è ovviamente anche la Psicoterapia, poiché questa non si identifica con la “scienza psicologica”, bensì si costituisce come un saper fare e un saper essere nella/della relazione (tranne, almeno nella loro autodescrizione, le psico (?) terapie cognitivo- comportamentali di prima generazione che si fondavano sui risultati del condizionamento operante).
Che la psicoterapia sia una “pratica” è perfettamente coerente con quanto sostiene Galli: ad es., la competenza a “incontrare da sotto” o a “diventare nessuno” non possono essere in alcun modo un “portato scientifico”, non possono appartenere a quella “scienza del mathema” che mette in formule e calcoli un sapere oggettivo e universale. Con buona pace delle teorie che, per pietire uno statuto di credibilità alla psicoterapia nel mondo tecnoscientifico accademico (lo stesso Freud non ne è stato immune), invocano l’applicabilità dei criteri delle scienze esatte a quella particolare conoscenza che accade nel dispositivo della psicoterapia.
Galli evoca i contesti delle pratiche artigianali, quali terreni relazionali di apprendimento delle attitudini fondamentali alla pratica psicoterapeutica. Ma tali mestieri sono quelli tradizionali (si direbbe novecenteschi) e, come tali, sono scomparsi o in via di estinzione. Non sono più o quasi disponibili all’esperienza delle nuove generazioni. Dove, allora, possiamo rintracciare contesti relazionali attuali della vita quotidiana che li sostituiscano nell’apprendere il silenzio, la sottrazione di sé, l’attesa?
Mi viene in mente che il negozio di ferramenta del mio quartiere (nel cuore artigianale della città) da alcuni anni è diventato un rinomato e frequentatissimo ristorante che ha voluto mantenere la vecchia romantica insegna e lasciare il nome “Ferramenta”, con tanto di vetrine che espongono ancora vetusti strumenti di perforazione e nastri per seghe giganti arrotolati come serpenti; ma il suo business adesso consiste nel vino e la cucina, il suo statuto relazionale (come tutti gli esercizi commerciali) rincorrere il gusto alla moda dei clienti, i quali hanno sempre ragione! Altro che dar loro frustrazione, insegnare il silenzio e l’umiltà rispettosa!
Una riflessione riteniamo meriti anche la valorizzazione dell’esempio nella trasmissione del sapere professionale. Indubbiamente l’esempio è non soltanto il miglior veicolo di apprendimento “incarnato”, ed ha anche uno spessore etico nel mostrare e testimoniare in diretta di ciò che viene fatto e non semplicemente dichiarato. Resta, tuttavia, una modalità di trasmissione per mimesi, per identificazione (se non a volte per incorporazione), qualcosa che passa al di qua del pensiero riflessivo, ed in questo risiede anche la sua efficacia formativa. Ci domandiamo, dunque: è sufficiente la formazione mimetica? O non occorrerebbe auspicare che tutto ciò che passa da maestri e supervisori fosse riattraversato criticamente e, eventualmente, messo tra parentesi? Soprattutto se l’esempio non comprende in sé stesso anche la capacità (auto-)critica, riflessiva, esercizio (anch’esso da imparare e trasmettere) senza il quale l’apprendimento incarnato finisce per diventare anch’esso semplice passaggio di formule e procedure da imparare a memoria e riprodurre.
Gilberto Di Petta
Intervista a cura di Valentina Lo Mauro e Gabriele Profita (21/01/2023)
Gilberto Di Petta, neuropsichiatra, psicoterapeuta, psicopatologo di formazione fenomenologica, è attualmente Dirigente Medico presso il SPDC dell’Ospedale “Santa Maria delle Grazie” di Pozzuoli, DSM ASL NA 2 Nord. Allievo del prof. Bruno Callieri, è socio fondatore e direttore della Scuola di Psicoterapia e Fenomenologia Clinica di Firenze e vice presidente della Società Italiana per la Psicopatologia Fenomenologica. Redattore capo della rivista Comprendre, Archive International pour l’Anthropologie et la Psychopathologie Phénoménologiques. Insegna in diverse scuole di specializzazione in psicoterapia ed è autore di numerosi testi.
PROFITA: Il fine di questo nostro incontro è quello di una discussione sulla trasmissione tra le generazioni, tematica oggi essenziale, e te ne parlo sia come docente universitario, perché anche all’università, c’è una trasmissione di modelli, di un modo di essere persona, anche se oggi le persone contano sempre meno e contano sempre di più schemi e le nozioni attraverso PowerPoint, scritti più o meno scientifici, internet. Ad esempio uno dei miei primi shock fu…
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…essere partecipe di una lezione fatta all’università di Strasburgo. Durante la lezione, tutti gli studenti presenti si misero con il computer davanti. Una parata di computer tanto che io non vedevo neanche i loro volti. Quello che mi colpì fu che nessuno mi guardava, che nessuno si accorgesse che aveva di fronte una persona, il locutore era a tutti loro invisibile tanto che la lezione avrebbe potuto essere anche registrata o essere in assenza. Quest’ultima cosa l’abbiamo poi sperimentata in periodo pandemico in cui abbiamo fatto tutto in assenza, e la corporeità è scomparsa. Partirei da questo e dal problema della memoria perché la trasmissione è trasmissione di memoria e di memorie e la modernità è assolutamente ostile alla memoria in quanto è tutta rivolta al presente e forse al futuro, ma non sulla memoria e sulla trasmissione. Non c’è niente che viene trasmesso, è tutto presente, tutto pronto da essere consumato, da essere memorizzato, ma senza il corpo. La prima questione che ti porrei è questa: cos’è per te la trasmissione? So che tu hai avuto un grande maestro, anch’io ne ho avuto, forse meno grandi, ma è proprio dei maestri trasmettere, soprattutto trasmettere uno stare al mondo, come si è nel mondo, e non contenuti, o almeno non solo. Alloro mi chiedo, cos’è “esserci nel mondo” per te e cosa significa trasmettere questo essere nel mondo.
DI PETTA: Da te non c’è da aspettarsi domande facili. Intanto mi pare che tu ponga con questa domanda, il dito nella piaga, perché quando si parla di trasmissione questa può riferirsi all’anello di una catena di trasmissione, di un albero motore, oppure può essere la trasmissione di un segnale radio o di un contenuto a degli ingegneri, o la trasmissione di un virus. Nel nostro caso come tu dici, non è solo la trasmissione di un contenuto quanto la trasmissione di un essere nel mondo o se vogliamo la trasmissione di una posizione, di una presa di posizione o di un atteggiamento, o la trasmissione di uno stile. Tutto questo ha immediatamente a che fare con un fatto etico, e cioè con il fatto che noi ci formiamo come clinici dell’umano, come clinici dell’esistenza, come terapeuti e quindi è cruciale che la trasmissione non avvenga con il solo contenuto che noi dobbiamo diventare addestrati a riconoscere e ad applicare in determinate situazioni, ma la trasmissione riguarda un modo di essere con un altro e quindi con se stessi, un modo di essere nel mondo, uno stile di esperienza che solo ci consente di articolare una diagnosi e di portare avanti un percorso terapeutico. Credo che questo sia l’anello cruciale, nel senso che, in tutta una serie di discipline, la trasmissione di un contenuto va anche bene, nella nostra, in particolare, la trasmissione del solo contenuto non mette in condizione il fruitore di questo contenuto di applicarlo. Questo noi lo abbiamo visto, in maniera esemplare con l’implementazione, a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso, della diagnosi statistica nosografica, portata avanti dai sistemi diagnostici accreditati. Nel momento in cui i quadri diagnostici sono stati scarnificati, essenzializzati e ridotti a dei cluster sindromici descrivibili e operazionalizzabili, lì si è sganciata la trasmissione dal discorso. Perché il discorso, con tutte le sue varianti prevede una presenza, una articolazione, prevede uno sforzo di trasmissione. Invece il cluster sintomatologico può essere tranquillamente trasmesso o per via informatica o per via di slides, o attraverso libri. Ma dove il sistema salta è quando lo specializzando va ad applicare il cluster diagnostico ad una situazione viva, senza che nessuno gli abbia detto come vada applicato, senza che nessuno gli abbia detto come vanno articolate e giocate fra di loro quelle definizioni operazionali. Ecco lì le nostre branche disciplinari, la psicologia e la psichiatria, hanno cavalcato l’illusione di poter essere totalmente empiriche, validabili, affidabili e di eliminare tutto quel rumore di fondo che prima era prodotto dalle cosiddette scuole. Per es. prima i Francesi consideravano il delirio un errore di giudizio, i Tedeschi lo consideravano invece a partire da una atmosfera nella quale il delirio maturava e quindi ovviamente i quadri diagnostici cambiavano a seconda delle scuole di appartenenza ma ciò non di meno tutto questo lavorio sulla diagnosi, che per Jasper era considerata un elemento terminale, non un elemento iniziale, è saltato. Tant’è che si è arrivati, anche su assimilazione del discorso medico, a questo concetto della diagnosi precoce, che è un orrore nel nostro campo perché essendo la nostra una diagnosi essenzialmente relazionale, che deve tenere conto di fattori contestuali, è di fatto impossibile fare una diagnosi precoce, addirittura prima che la malattia si manifesti, ed invece questo discorso della diagnosi precoce sta prendendo sempre più campo. Ora, se anche funzionasse questo sistema di trasmissione basato su codici operazionalizzati che saltano completamente la vicinanza e la presenza del maestro e dell’allievo, quello che manca è proprio lo stile, l’atteggiamento, la modalità di fare esperienza che costituiscono l’essere nel mondo dello specializzando con il paziente. Per cui il giovane si trova con un castello di definizioni che spesso galleggiano nell’aria o che spesso vengono applicati in maniera assolutamente random e non danno possibilità di agganciarsi ad un paziente, o se questo accade di tenerlo dentro un percorso di cura, perché il problema non è solo di fare chiarezza su un quadro, ma il problema è anche quello di mantenersi nel percorso e nel processo agganciati al paziente.
PROFITA: Ti proporrei una serie di questioni. Una riguarda le esperienze di tipo etnopsichiatriche, condivise con la dottoressa Valentina Lo Mauro che oggi ci accompagna in questa intervista. La domanda che ti farei è proprio sull’Altro culturale, perché è vero che ogni Altro è Altro, sia che appartenga alla medesima cultura sia che appartenga a culture radicalmente diverse, ma quando c’è un aspetto culturale che porta agli antipodi per ciò che riguarda le concezioni del mondo e le visioni del mondo la questione è un po’ più complessa. Ci sono due termini tedeschi Kultur e Zivilisation che mettono insieme questo due aspetti che tu sottolineavi, l’assimilazione che è propria del DSM e la Kultur che è la visione, la concezione del mondo. Questi strumenti diagnostici, dicevi tu, hanno operato questa scissione. Anche se nel DSM la Cultura compare come appendice, è forse essa stessa una catalogazione un po’ arbitraria perché se si parla di alcune sindromi specifiche di alcuni contesti molto limitati e lontani, poi si rischia di smarrire il senso del discorso culturale.
Mi chiedevo una serie di cose e di aspetti su Modernità e Antimodernità, per esempio la scomparsa del Sacro nelle nostre discipline, la scomparsa della gratuità, dell’amicizia, dell’ospitalità. Tutti termini che io metto accanto a quelli dell’utilitarismo, del produttivismo, che ha preso tanto campo nelle nostre discipline. Negli ospedali, bisogna computare il numero dei pazienti, quanti ne vediamo, cosa facciamo, che cosa espletiamo e così via, e non c’è più niente che abbia a che fare con l’antiutilitarismo, o con la teoria del dono di Marcel Mauss e così via.
Tu credi che si possa fare una trasmissione anche della capacità di donare, che è una delle cose che mi affascina molto, perché con il paziente non abbiamo solo DSM o PDM, ma abbiamo la capacità di donare una parte di noi stessi. Dov’è il punto di discrimine? Dove finisce l’expertise, la competenza e comincia l’umano, il dono, la trasmissione di una umanità che noi riteniamo, tu per primo, il vero fattore terapeutico? Questo elemento dell’umano come può essere recuperato e come può essere trasmesso?
DI PETTA: Parto da esempi concreti, ricoveriamo in SPDC una ragazza del Pakistan che ha una crisi psicotica e che rifiuta di alimentarsi al punto che ci poniamo il problema di nutrirla con la sacca. Nel frattempo convoco la famiglia, viene solamente il padre perché le donne compaiono poco. Il padre porta il peso della colpa di questo mondo occidentale, nel senso che lui e la moglie sono dei cugini della stessa etnia, per cui lui qui ha maturato l’idea che questa ragazza sia venuta “difettosa”, ovvero come ragioniamo noi occidentali che abbiamo dei veti e dei tabù e che magari loro non hanno e che loro stanno sacrificando perché hanno una cultura diversa, non so forse nel suo mondo questa ragazza avrebbe portato la sua psicosi in maniera differente, qui invece non tiene i ritmi della nostra società. Ecco che ad un certo punto il discorso cade sul cibo, e il padre dice che a casa la ragazza mangiava, allora ecco che qui l’umano ti fa dover violare delle regole. Noi abbiamo delle regole stringenti, in reparto non può entrare cibo dall’esterno, il cibo è quello ospedaliero e la ragazza non mangia il cibo ospedaliero. Per questa ragazza occorre fare una deroga e farle portare questi cibi speziati e la ragazza comincia a mangiare. Oppure in carcere le detenute nordafricane si rifiutano di lavarsi e questa è una cosa che viene sanzionata, e poi invece capisci che loro hanno paura dell’acqua, del sapone perché temono che possano togliere dalla loro pelle delle protezioni. Oppure altre detenute nordafricane che vivono una condizione che noi definiremmo come depressiva ma che in realtà fanno parte di un voodoo che hanno fatto loro perché hanno lasciato la propria terra. Ecco che di fronte a queste situazioni tu senti scricchiolare tutta questa impalcatura nostra, occidentale, quando vogliamo calarla su questo altro, in definitiva ti rendi conto che la schizofrenia è un costrutto occidentale, non c’è nulla da fare è un costrutto occidentale ed allora lì sei costretto ad operare una differenziazione cioè lasciare i nostri costrutti non solo nosografici ma anche, direi, metapsicologici dei vari modelli, da quello relazionale a quello psicoanalitico, tutti modelli mentali costruiti sull’uomo occidentale, e de-differenziarti su quel piano, su quel terreno dell’umano. Perché su quel terreno dell’umano tu entri in una semantica e in una grammatica del sentire che in definitiva ti consentono di ritrovare un punto di contatto dal quale ripartire per cercare di donare realmente qualcosa all’altro, però è una operazione abbastanza anti-istituzionale, anti-burocratica e anti-scientifica, se per scientifico intendiamo tutta l’impalcatura che ci sorregge nelle nostre operazioni. Ed è invece una operazione che ci rimanda a quell’essere nel mondo di cui si parlava prima in cui tu riesci ad entrare in contatto con l’Altro dentro di te, e con l’altro fuori di te sulla base di una grammatica diversa, che è una grammatica e una semantica antropologica, umana, universale, perché poi in fondo diciamo le emozioni di base, nel mondo animale come nel mondo umano sono quelle. Di fatto rientriamo nell’essere dei neo-mammiferi che provano dolore e gioia, rabbia, piacere, amore, repulsione, tristezza, esaltazione, stati di euforia diversi. Ecco questo è un livello che è andato perduto, perché tutte queste cose, queste parole che io ho pronunciato non ci sono negli scheletri nosografici e neanche nei modelli, negli eleganti modelli metapsicologici, quindi sono delle cose che partono dalla tua capacità di sentirle dentro e di rimetterle in contatto con quell’umano più autentico, differenziato che solo ti consente il dialogo con l’Altro.
PROFITA: Ti volevo raccontare una breve storia che ho vissuto quando ero a Strasburgo, dove ho svolto un periodo di ricerca sul malinteso culturale. Andavo in una clinica psichiatrica dell’ospedale di Strasburgo con uno psichiatra, che oltre alla sua pratica clinica in ospedale esercitava anche in una associazione per migranti. Nelle due realtà si comportava in maniera differente. Quando era vestito con i suoi abiti da psichiatra ospedaliero si comportava in un altro modo. Una volta un ceceno, sposato con figli, mi raccontò che lui ascoltava tutto quello che lo psichiatra gli diceva, prendeva le medicine, a volte in maniera discontinua, però aveva la sana abitudine, una volta uscito dallo studio dello psichiatra, di telefonare alla nonna al suo paese natio, chiedendole parere ed indicazioni su cosa fare, e la nonna gli rispondeva: “figlio mio fatti un decotto d’aglio che queste cose ti passano”. Questa era una delle cose che volevo raccontarti, così come con un altro medico, primario della medicina interna, faceva ancora un’altra operazione soprattutto con i pazienti rom. Questi avevano l’abitudine di affollare le stanze, per altro molto piccole, dell’ospedale, arrivando con tutta la famiglia a dare conforto al paziente e mangiavano ali di pollo buttando le ali di pollo sul pavimento e succedeva un gran casino perché poi gli inservienti si lamentavano perché dovevano pulire da queste lordure lasciate dai rom. Insomma era visibile lo scontro tra culture, e mi domandavo se nell’ambito che tu più strettamente conosci, c’è un’attenzione per queste forme che non so come definire, se come forme di contestazione o, più semplicemente, come dei modelli di vita che vengono esposti perché vengano presi in considerazione e accolti. Buttare le ossa per terra è un portare la propria Weltanschauung dentro la cultura ospedaliera, per manifestare la propria identità e perché questa identità venga presa in carico. Io mi chiedo quanto queste cose vengano prese in carico nelle nostre strutture, e tu sei sicuramente più addentro a queste situazioni.
DI PETTA: Io direi per niente. Ricordo quando incontrammo Tobie Nathan a Venezia, all’isolotto di San Servolo, lui ci raccontava non solo le storie dei suoi pazienti ma anche le storie dei suoi specializzandi a cui lui consigliava di entrare in analisi e che ritornavano, dopo alcuni giorni, dicendo di aver consultato alcuni loro parenti e questi ultimi avevano detto loro di no. Questi parenti erano morti. Quindi, per tornare alla tua domanda iniziale, stiamo parlando di persone che avevano fatto un corso di civilizzazione. Noi questo problema lo abbiamo continuamente, per es. con quelli che ci chiedono un tappetino perché devono pregare ad una certa ora, lo abbiamo con gli homeless che dobbiamo ricoverare e che dormono per terra ma non sul letto perché per loro dormire sul letto significa non dormire, non prendono proprio sonno sul letto anche con i farmaci. Oppure che defecano per terra, loro hanno bisogno di defecare sul pavimento dell’ospedale perché per loro non è pensabile sedersi su un servizio igienico. Noi non siamo pronti a queste evenienze, ci facciamo fronte in qualche modo quando riusciamo ad innescare un livello comprensivo che va al di là del livello operativo. Del resto, credo che continuando così le cose, sappiamo che continuare ad occuparsi dell’altro, delle culture altre non è andare sull’altopiano dei Dogon come faceva Piero Coppo, ma sono loro che vengono da noi, quindi direi che tutto il nostro sistema fa acqua da tutte le parti, scricchiola completamente quindi se un aiuto queste culture ci possono dare è quello di relativizzare quella che è la nostra impostazione, io non credo che riusciremo a dominare ed estendere, probabilmente nel futuro il tutto andrà ridiscusso sulla base di questa epocale contaminazione culturale.
PROFITA: Altro argomento, tu hai evocato il sapone e mi torna utile perché il sapone è ovviamente una invenzione culturale nostra che non ha niente a che fare con certe popolazioni. Ma la questione del sapone mi ha evocato il potere degli oggetti. Parlo del potere degli oggetti perché la trasmissione è fatta anche di oggetti non soltanto di cose che passano. Vorrei ricordare, a proposito dei feticci o di come li chiama Latour dei fatticci, oggetti che contengono dei fatti, delle anime, vorrei ricordare qui sia tutta la questione degli oggetti sacri, degli oggetti familiari, pensa ad un anello che viene trasmesso dalla nonna alla nipote quanto potere ha. La domanda la faccio a te: so che hai ereditato degli oggetti preziosi per te ma anche per noi, e che tu abbia ereditato attraverso questi oggetti un modo di essere, un po’ come l’anello prezioso che il nonno regala al nipote. A proposito di trasmissione, questi oggetti cosa ci possono dire? Mi rendo conto che è una domanda molto personale, ma penso di potertela fare: cosa ti ha lasciato Callieri?
DI PETTA: Callieri, Bruno, mi ha consentito di chiamarlo Bruno ad un certo punto del nostro rapporto. Io l’ho sempre chiamato professore. Noi siamo stati in contatto praticamente per venti anni e lui era di una generazione avanti alla mia. Ci siamo incontrati che io avevo 30 anni e lui ne aveva 70, e questo è strano perché è come se fosse mancata, tra di noi, una generazione, una intera generazione intermedia nella cinghia di trasmissione della psichiatria, una generazione che se ne è andata, che ha partecipato al movimento della riforma. Lui era prima di loro, io ero dopo di loro, quella generazione di mezzo è stata proprio ingoiata dalla trincea, dal lavoro sociale, dalla militanza politica, dall’utopia che si potesse abolire la malattia mentale e cambiare il mondo, quella è una generazione scomparsa. Quando ci siamo incontrati tra i fumi delle macerie, perché lui era lì che ovviamente simpatizzava molto ma diceva anche “state attenti”, ma è stato travolto perché la psichiatria, come la psicopatologia ma anche la psicoanalisi, come ogni modello di cura è stato travolto dall’onda rivoluzionaria, e loro venivano considerati reazionari. Ed io che arrivavo quando l’utopia cominciava a mostrare crepe da tutte le parti, ed allora è come se io avessi fatto un salto cercando di ritornare alle fonti. Callieri viveva in questo palazzo del primo Novecento e il suo studio era accanto all’appartamento in cui viveva la sua famiglia.
Questo suo appartamento-studio era di fatto una biblioteca di migliaia di volumi che credo fosse all’altezza delle migliori biblioteche delle cliniche psichiatriche d’Europa, e lui aveva i testi più particolari, quelli che venivano da Heidelberg dove era stato allievo di Schneider, in una libreria in legno donatagli da un paziente egiziano che aveva sopra intagliati una serie di simboli che alludevano alla pratica medica, al dio della medicina. Ricordo che un giorno lui mi disse: “un giorno i testi di psichiatria e di psicopatologia saranno tuoi, ma il mio tempo si avvicina ed io voglio cominciare a darti delle cose personalmente, da mano a mano, perché poi i miei figli eseguiranno le mie volontà, ma di alcune cose voglio essere sicuro. Così cominciò questa cosa per me molto dolorosa, perché vedevo un maestro che sentiva la fine, lui diceva “vedi la morte devi fartela amica perché è l’unico modo in cui tu puoi prepararti all’incontro con lei, non la devi temere. Per me darti questi libri è anche un modo per dirti che io sto ultimando il mio cammino ed ho piacere che li tieni tu”. Ovviamente potete immaginare come io mi sia sentito in quel momento, per me prendere quei libri in mano, non prevaleva dentro di me l’orgoglio di essere il depositario di quei libri, c’era dentro di me lo sconforto di lasciarlo solo, di lasciarlo in quella casa senza quei libri, perché quegli oggetti erano per lui molto più di carta stampata, quegli oggetti rappresentavano per lui una Weltanschauung, qualcosa che lo aveva informato di sé tutta la sua vita. E ricordo il giorno in cui lui mi consegna questi due volumi: uno era Psicopatologia Generale di Jaspers, un’edizione del ’48, quindi Jaspers ancora vivo, pensiamo che in Italia è stato tradotto da un suo collega Romolo Priori, della Clinica Neuropsichiatrica di Roma solo 1964. Quindi Callieri già nel 1948, appena laureato attingeva a Psicopatologia Generale di Jaspers che per la psichiatria organicista italiana, per la psichiatria vetero positivista di allora, era uno inutile. Jaspers come Freud non valevano allora nulla. Quindi lui mi consegna questa Psicopatologia di Jaspers e poi con grande sorpresa mi consegna i tre volumi di Emil Kraepelin, il Compendio di psichiatria. Ed io gli dissi, “come professore proprio Kraepelin?” E lui mi disse “Sì perché prima di Kraepelin c’era Griesinger, e prima di Griesinger c’era Kant. Poi dopo di Kraepelin arriviamo noi. Quindi se tu parti da Kraepelin hai la prospettiva completa della storia”. Me ne tornai a casa con questo fardello di libri, in un totale subbuglio e mi rivenne in mente la scena del grande capolavoro di Eco Il nome della rosa, in cui in questo monastero si svolge una catena di omicidi attorno alle pagine di un testo messo al bando, il testo messo a bando era La poetica di Aristotele, il testo sul sorriso. E mi veniva in mente che stavo vivendo qualcosa quasi clandestinamente, perché era un atto clandestino quello che lui aveva fatto, cioè lui non era un professore universitario, io non ero inserito in un circuito universitario, eravamo due rimasti fuori dal sapere ufficiale delle magnifiche sorti progressive, che andavano per proprio conto e lui voleva assicurarsi personalmente che due opere capitali di questo sistema di pensiero che era finito fuori dalla storia finissero nelle mani giuste. Era proprio un lascito spirituale, se mi si può consentire di usare questo termine, ma anche recupererei il termine Sacro, utilizzato prima, che ci legava per la vita, ricevere quelle “armi” significava che avresti dovuto continuare a combattere per quella causa e lui in quel momento, con un patto quasi di sangue si stava assicurando che tu avresti continuato per tutta la vita e che tu ti fossi posto il problema quando il tuo percorso sarebbe finito, problema che io comincio a sentire di dovere trovare qualcun altro a cui dare quelle cose, perché in quella cose c’è la chiave per poter tenere viva una grande idea che è quella della psichiatria umanistica, della psichiatria legata alla filosofia, della psichiatria antropologica, della psichiatria fenomenologica comprensiva contro invece una psichiatria molecolare riduzionista che nella sua idea non era assolutamente più in grado di cogliere la sofferenza del paziente, quindi perdendo il bambino con l’acqua sporca si sarebbe perduta anche una chiave per la comprensione dell’uomo in generale. Poi naturalmente io ricevo la sua biblioteca, i figli sono stati straordinari, non ho potuto prendere tutto perché era impossibile, ho preso tutta la parte psichiatrica e psicopatologica, che ho adeguatamente sistemato, e di tanto in tanto mi capita di tornare su questi libri, spesso devo dire, lo faccio e mi trovo davanti a una serie di appunti, e con una serie di note, e di foglietti ed ecco che questo dialogo con il maestro continua anche dopo la sua morte perché, di fatto, io scopro delle cose che credevo di sapere ma che in realtà avevo dimenticato o alle quali non avevo dato una collocazione giusta, o erano domande che erano rimaste aperte dentro di me o erano domande che mi sono fatto ad un certo punto della mia esperienza ed io trovo là ,non dico delle risposte, ma delle indicazioni assolute perché io possa andare avanti e continuare. Questo è per me qualcosa di straordinario che non so se può costituire anche in parte una risposta alla tua prima domanda e questo non te lo può dare Zoom non te lo può dare internet.
PROFITA: Ed anche una serie di idee germinative che hanno a che fare proprio con il dono. Questa vecchia intuizione di Marcel Mauss, con tutto quello cui ha dato luogo, per cui il dono si trasmette di generazione in generazione, di persona in persona; mi chiedevo quali e quanti tuoi pazienti hanno potuto usufruire di questo dono. Ovviamente in filigrana, non è più un testo scritto, il libro, ma un testo filigranato attraverso la tua persona ovviamente, che rappresenta il lascito di Callieri, e credo che questo sia qualcosa di magico se mi lasci dire anche questa parola, che è poi quello che succede nell’umano dove se non c’è il magico non c’è cura che tenga, ma non solo nella cura anche nel quotidiano contatto con le persone.
Poi ci sarebbero tante cose che mi chiedevo, come per esempio il visuale e il testuale, questo è un momento in cui scompare il testuale a favore del visuale, tutto viene visto ma non c’è più il testuale che invece ha a che fare con il fermarsi. Quelle note di cui tu parlavi, quelle sottolineature del tuo maestro, le note a margine, l’odore della carta, potremmo entrare in un discorso quasi mistico, però è quello che poi regge l’umano. Io per ora sono allo studio della Fabula mistica di De Certeau, in cui molte cose sono trattate come trasmissione dell’umano.
Mi chiedo se la tua missione con i tuoi pazienti, con le persone che incontri e in questo momento anche con noi, non sia legato alla trasmissione di questa filigrana, di qualcosa che si vede in trasparenza, non visibile immediatamente, e che è dato dal contatto fisico con il libro, dal colore delle pagine ingiallite, dalla cura che hai per le copertine… con le nuove generazioni che non hanno questa visione magica della trasmissione degli oggetti, delle parole, dei suoni e degli odori. Perché oggi siamo in crisi rispetto a come trasmettiamo tutto questo in un mondo mediato dalla tecnologia e che quindi richiama immediatamente al produttivismo, all’utilitarismo ad altre questioni che non sono quelle che sino ad ora abbiamo trattato. Vorrei ricordare una cosa che anche Valentina ricorderà perché vissuta insieme. Un mediatore ci raccontò una storia di una iniziazione di uno sciamano e questo ragazzo rimase quasi trent’anni al seguito di questo sciamano, imparò tantissime cose, di come si facevano i decotti, come si usavano le erbe, imparò tecniche e strategie locali. Un giorno il maestro lo mando fuori dal villaggio per due giorni, per una commissione, ma durante questi giorni il maestro morì e non gli poté comunicare la parola magica, quella che effettivamente dava i poteri Ti volevo offrire questa suggestione per continuare il nostro discorso ma soprattutto per pensare a chi viene dopo e non solo a chi è venuto prima, cosa possiamo dare e come possiamo dare alle nuove generazioni quello che siamo?
DI PETTA: È una questione che io vivo in maniera molto cogente per due ordini di motivi. Un motivo è legato al fatto che, adesso, io sono primario di un reparto di psichiatria e quindi mi stanno cominciando ad arrivare medici giovani. È arrivata, come sostituta, questa ragazza siciliana che si è specializzata da noi a Napoli, una ragazza brillante, specializzata nei primi di novembre e lei viene e mi dice che è venuta a fare queste ore di sostituzione in reparto ma lei ha vinto il dottorato di ricerca e quindi il suo progetto è di stare all’università, “come posso vengo da voi e vi do una mano”. Questo a novembre. L’altro giorno questa ragazza, molto timorosa, che ha iniziato a fare le notte, che ha iniziato a venire con me nell’emergenza delle acuzie in pronto soccorso, e si confronta per la prima volta con le emergenze, i policlinici non sono dotati di pronto soccorso, le cliniche universitarie non fanno trattamenti sanitari obbligatori, i pazienti sono tutti di elezione, sono tutti più o meno passati per gli studi dei docenti, lei ha attraversato soprattutto la clinica fatta di ricerche di elezione su approfondimenti bibliografici. Questa ragazza ha vissuto la notte, il freddo, la crisi acuta, il rapporto con l’aggressività e la violenza ma anche il rapporto con la dolcezza e la tenerezza, le lacrime, gli abbracci con i pazienti che sono andati via, le terapie che dopo i primi i giorni definiscono il quadro, la gioia dei pazienti di tornare a casa. Torna l’altro giorno e mi dice: “ho rinunciato al dottorato di ricerca e ho dato la mia disponibilità per venire a lavorare qui con la vostra equipe, la mia famiglia è preoccupata, tutte le mie amiche e colleghe sono preoccupate, ma io ho risentito battere il cuore, ho sentito che qui da voi si fa veramente qualcosa per qualcuno. Io mi rifiuto di trascorrere la mia vita dietro il computer”. Questa è una cosa che mi ha acceso molto perché a volte è vero che noi diciamo che i giovani sono cambiati, che il tempo è cambiato, però io ho la sensazione che quando riusciamo a far sì che qualcuno, diamo per scontato che questo qualcuno sia come diceva Winnicott una madre sufficientemente buona, una volta lessi una introduzione di Winnicott in cui lui diceva “io mi rivolgo a delle madri e do per scontato che siano delle madri dotate di una loro predisposizione a fare le madri”. Allora nelle nostre scuole di psicoterapia con i nostri specializzandi, ecco io credo che noi dobbiamo dare per scontato che, certo sono persone passate da percorsi tutti diversi a volte formattanti e che hanno in alcuni casi seriamente in crisi quello che era il loro slancio, perché tutti all’inizio hanno questa idea dell’umano, poi questa cosa viene quasi eradicata, però evidentemente qualcosa rimane, una brace che in alcuni casi divampa ed allora ecco che questa ragazza dice di aver ordinato in libreria tutta una serie di libri, classici, perché poi le domande dalla clinica vengono, perché nella clinica i conti non tornano mai. Per quanto riguarda gli specializzandi di psicoterapia della nostra scuola io ho adottato un altro metodo, quello di lavorare con loro in gruppo come se fossero un gruppo di pazienti e, senza mediazioni, portarli immediatamente in un clima di gruppo. Far loro sperimentare il disagio, la sofferenza, il dolore, la risoluzione e poi da lì dargli delle indicazioni, delle tracce, delle parole chiave che loro poi possono andare a cercare, e noto che partendo da questo colpo che loro ricevono, da questo spiazzamento sul piano emotivo , sul piano corporeo, poi sono più disposti a mettersi sulle tracce di un lavoro intellettuale e comprensivo che li porta a recuperare necessariamente dei punti di vista che invece erano completamente saltati nelle loro formazioni. Quindi penso che questo possa essere una chiave, l’esposizione ad una situazione, ovviamente guidata dalla figura di un maestro che poi ti riesca a far capire che per muoverti su un territorio sconosciuto hai comunque bisogno di fermarti e recuperare una traccia topografica da qualche parte. Questa è una cosa che mi incoraggia molto perché poi se faccio una lezione teorica incontro il vuoto, prendono appunti si segnano le note, comprano libri che non leggeranno mai, o segnano indicazioni di libri che non compreranno mai, e tutto finisce lì. Se invece parto dal confronto con il paziente, diretto bruciante, o da una situazione emotiva che li coinvolge poi sono più predisposti a fare il punto nave e a costruire anche un percorso di senso culturale.
PROFITA: È il discorso che facevamo sul corpo, sulla carne, direi proprio tipicamente fenomenologico, direi che tu parti dal corpo per poi recuperare lo studio, l’aiuto che ti può venire dall’esperienza degli altri e così via, ma intanto come primo approccio è un approccio di carne.
DI PETTA: …Con l’Altro, col mondo, con la vita, perché la parola che non abbiamo usato ma intorno alla quale abbiamo girato e che credo possa essere il comune denominatore possa essere la vita, quella che in fenomenologia chiamiamo la dimensione della Lebenswelt, del mondo della vita. Il mondo della vita è il mondo della cura, è il mondo dell’incontro, è il mondo della cultura e del pensiero, ma è anche il mondo del tramonto, dell’alba, dei colori che palpitano, della carezza, della rabbia, è il mondo della rugiada, è quel mondo che credo rischi di andare perduto dalla trasmissione corretta nei contenuti ma completamente asettica nelle forme e negli atteggiamenti e che in qualche maniera e da qualche parte noi dobbiamo sforzarci di recuperare, perché non è che la dobbiamo creare, è una dimensione che è lì e dobbiamo squarciare il velo di Maya per farla venire fuori e poi cercare di agganciare su quella una dimensione più didattica e formativa, altrimenti solo la vita per la vita rischia di diventare poco produttiva all’interno dei nostri contesti, ma una certa costruzione operazionalizzata, modellizzata, razionalizzata che non ha alcun contatto con la vita per non lasciarsi sovvertire dalla vita è assolutamente sterile e non ci porta da nessuna parte.
LO MAURO: Mi introduco ora dopo avervi ascoltato con grande emozione. Non sono qui come, o non solo come direttore di una sede della scuola, ma soprattutto per la curiosità che il vostro e il nostro primo incontro a Città della Pieve mi ha sempre suscitato. Mi è sembrato allora, ed oggi mi sembra nuovamente di cogliere, che ci fosse molta sintonia tra voi e quindi grazie per avermi ospitata in questo vostro incontrarvi. Forse la curiosità ha a che fare con questo avere fiducia nella vita, in quell’ineffabile che si coglie e che richiede tempo perché possa trovare le parole per essere detto. Entrambi mi avete fatto pensare questo, perché in quanto vi siete scambiati c’era questa emozione molto forte sul cogliere che la trasmissione avviene quando si incontra il proprio tempo e lo si può attraversare, quando si ha fiducia che l’altro non si spaventi troppo del tempo dell’altro che si incontra e che soprattutto la trasmissione avviene perché ci si dedica tempo a raccontare la propria storia, che diventa elemento di trasmissione e di inclusione. Però vi chiedo, come facciamo a consentire spazi perché il tempo diventi di nuovo abitabile. All’inizio avete parlato anche di una urgenza, di un tempo che diventa sempre più stretto in cui le risposte sono sempre più immediate, ecco come si rimette il tempo negli incontri tra le persone?
PROFITA: Diciamo che ce l’abbiamo fatta! Dopo Città della Pieve non era neanche detto che riuscissimo a fare questo. Credo che il tempo abbia a che fare anche con il silenzio, la dimensione del silenzio è una dimensione dell’emersione, come tu Valentina ben sai, la dimensione della parola spesso è una dimensione che copre e lascia tutto sotto, il silenzio lascia emergere. Il tuo silenzio ha lasciato emergere tutta una serie di cose e personalmente io sono molto contento di aver rivisto Gilberto dopo tanto tempo, perché il tempo è necessario. E penso alle melenzane che coltivo nell’orto in Bretagna e che spesso non riesco a raccogliere perché parto prima che siano mature, la melanzana mi dice guarda che ci vuole tempo per fare le cose ed io ogni tanto questo tempo non ce l’ho. Me lo sono concesso con Gilberto e questa cosa mi riempie di grande affetto nei suoi confronti proprio per le sue qualità umane che sono percepite immediatamente al di là del tempo che noi abbiamo passato insieme e che è molto poco del resto, ma che lascia delle tracce e che la cosa più importante sia questa filigrana. Che comunque non si spezza. Ti ringrazio molto.
DI PETTA: Sono io che vi ringrazio, devo dire che anch’io sono rimasto molto colpito dal nostro incontro, non avevo modo di conoscerti, non sapevo nulla di te ed è stato straordinario conoscerti per come ti ho visto muoverti, assecondare i tempi di quei nostri incontri a cielo aperto sui prati, al tramonto, all’alba, insieme a tutti gli altri, ho sentito una grande fiducia, io penso di esser venuto fuori da quella esperienza paradossalmente perché mi accompagnavo a te, a Ugo1 e sentivo che voi eravate un passo avanti, un passo indietro, ed è stato per me molto bello e poi tutto il resto è venuto dopo, noi ci siamo incontrati senza sapere nulla l’uno dell’altro e ci siamo dati reciprocamente fiducia. E questa questione del tempo ci consente di vedere come abbiamo aperto, perché anche tu Gabriele hai centrato questo concetto che Valentina riprende, quello dell’abolizione del tempo. Perché è vero la trasmissione informatizzata e operazionalizzata è una trasmissione senza tempo, è una trasmissione atemporale, nel momento in cui Valentina riporta il problema del tempo riporta il problema dell’umano perché l’umano è il tempo, e tutto ciò che è atemporale non è umano, tutto ciò che atemporale appartiene agli dei, appartiene ad una dimensione che è poco umana. La dimensione umana è la dimensione della morte, il tempo è la morte, ma il tempo è anche la vita, perché se non c’è la morte non c’è la vita, se non c’è la morte il tempo non sta scorrendo, perché i pazienti quando si fermano nel tempo, perché i nostri pazienti tutti si fermano nel tempo per abolire la morte e abolendo la morte aboliscono la speranza, perché il tempo è anche la speranza, solo il tempo che cammina verso la morte è un tempo che da luogo alla vita. Ed allora secondo me, per rispondere alla domanda di Valentina, un modo per reintrodurre questa dimensione del tempo è quello di far ripartire il ritmo, perché il tempo della vita è un tempo ritmico, è un tempo che ha un ritmo, è il ritmo della pulsazione del cuore. Il cuore ha un ritmo, il tempo della vita ha un ritmo che è quello della fame, del sonno della veglia, e le emozioni sono delle cuspidi temporali e la carne è temporalizzata e quindi io credo che questo tempo lo possiamo far ripartire nell’incontro, negli incontri perché il vero incontro, che sia un incontro unico o un incontro che si ripete nel tempo è dotato di un ritmo, l’incontro autentico è l’incontro che fa ripartire un ritmo che poi ognuno dilata, rallenta, accelera a seconda di se stesso e dell’altro e a seconda di questo ritmo, il tempo torna. Se non si sente questo ritmo la dimensione del tempo viene abolita, e vivere senza tempo significa sostanzialmente vivere senza incontro, senza carne, significa non vivere. Per questo mi sento di ringraziarvi io perché le cose che ho detto erano delle cose che erano in me ma che non mi erano chiare se non mi fossero state da voi elicitate, e con voi ho avuto la possibilità di rivederle e di viverle e di collocarle dentro un tempo che significa anche portarmele nel mio futuro e magari trasmetterle a qualcuno.
Antonino Aprea
Intervista a cura di Gabriele Profita
Antonino Aprea, psicologo, psicoterapeuta gruppoanalista, è Preside della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia psicoanalitica della COIRAG. Docente a contratto per l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, Membro della Commissione nazionale Psicologi della Società Italiana di Cure Palliative.
PROFITA: Allora, come tu sai, l’argomento principale di questo nostro incontro è quello della trasmissione tra generazioni professionali e ovviamente, per il tuo ruolo nella Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della COIRAG, tu rientri tra i nostri interlocutori. Il tema è spinoso, non semplice. Io spero che tu abbia letto quel paper inviato della Rivista in cui accennavano ad una serie di problemi e io te ne aggiungerei, a modo di riscaldamento, degli altri. Uno dei temi che a me interessa è quello della memoria. Ho anche un po’ lavorato su questa cosa e sul rapporto tra modernità e memoria. La modernità tende a fare a meno della memoria, è tutto proiettato sul presente ma soprattutto sul futuro e quindi la memoria, quello che è la storia, la tradizione, il lascito antico o più recente è in genere considerato come vecchio, non antico, ma proprio vecchio, salvo per i momenti vintage di ripresa, momenti che potremmo definire di “antico modernariato”. Questo discorso sulla memoria ha a che fare con la formazione: cosa trasmettiamo? A partire dalla tua esperienza di presidenza della…
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Scuola, hai osservato, notato, difficoltà nel passare degli anni, nella trasmissione? Che cosa trasmettiamo? Trasmissione di schemi, di atteggiamenti?
APREA: Credo che, di fondo, trasmettiamo una posizione, una postura. Soprattutto nei confronti del nostro sapere, della sua organizzazione nelle nostre menti, un’organizzazione che ci consenta di vederlo innanzi tutto criticamente e utilizzarlo in maniera avveduta per metterlo a servizio di una clinica del mentale che sappia riguadagnare efficacia in uno scenario complessivo molto mutato. Se per te va bene imposterei questo nostro scambio come una piacevole chiacchierata basata, per quanto mi riguarda, sull’esperienza dei miei sette anni di presidenza della Scuola COIRAG. Su questa esperienza, ho cercato nel corso del tempo di scrivere qualcosa, riflessioni in larga parte non sistematiche ma, credo, attraversate da una certa coerenza di fondo. D’istinto mi verrebbe da dire che, paradossalmente, uno dei problemi che incontriamo nell’organizzare una formazione alla psicoterapia è che tendiamo a trasmettere ciò a cui siamo legati. E, tendenzialmente, siamo legati a concettualizzazioni, che nel nostro ambito sono continuamente reificate, e solo più raramente ad un modo di pensare, ad un’inclinazione di fondo all’utilizzo dei saperi che si riferiscono in maniera pertinente al nostro oggetto di studio e alle sue specifiche caratteristiche. Detto per inciso, si tratta di saperi che, per quanto riguarda l’uomo e la sua mente, sono ovviamente ben più ampi del nostro ristretto ambito disciplinare. Dunque, un primo problema è che trasmettiamo una certa codificazione di pensiero, internamene più o meno coerente, ma in genere non la capacità a indagarne di presupposti e i vincoli epistemologici di fondo, quelli che permetterebbero di maturarne una distanza critica e di collocarla opportunamente in una sistema più ampio di conoscenze. Evidentemente trasmettiamo un bagaglio a volte irrinunciabile, ancorché eterogeneo per linguaggi e teorie, di conoscenze e competenze. Insieme a questo però trasmettiamo anche una serie ritualità, di stereotipie, di cristallizzazioni procedurali, legate al modo di funzionare delle nostre comunità professionali di appartenenza. Comunità professionali che, nel corso del tempo, hanno sistematicamente utilizzato le loro prospettive scientifiche non come provvisorie impalcature conoscitive per continuare ad esplorare territori ignoti ma come elementi connotativi e distintivi per affermare e difendere una certa identità sociale e professionale, anche ovviamente una posizione di mercato con le sue inevitabili rendite. È per certi versi ironico che proprio i professionisti della psiche tendano ad avere una visione di fondo così monolitica dell’identità, la parte professionale della propria identità, negandone il suo costitutivo meticciato e la sua scientifica provvisorietà. Mi pare abbastanza chiaro che qui ci sia un nodo rilevante: ci costringiamo, come categoria, a delineare confini rigidi di competenze e metodologie per puntellare l’identità professionale nostra e dei nostri gruppi di appartenenza ma molte volte i problemi che incontriamo nella clinica ci richiedono di cercare chiavi interpretative e soluzioni fuori dagli ambiti così rigidi ed angusti che strutturiamo. Tutto ciò però avviene quasi clandestinamente, con una perdita enorme di acquisizione di ulteriori di conoscenze. La formazione alla psicoterapia in questo modo, come ho scritto, rischia di diventare l’ambito del “si fa ma non si dice” ed anche del “si dice ma non si fa”. Siamo legati in maniera purtroppo identitaria a ciò che trasmettiamo e che non sempre si rivela utile nella gestione della clinica contemporanea; tendiamo invece a svalutare o addirittura a negare altri legami e “attaccamenti” con altri modi di procedere, competenze, discipline che, non essendo valorizzate nel nostro pensiero e nella nostra pratica, vengono di fatto disperse attraverso un utilizzo non approfondito, episodico, chiuso in ristrettissime enclave non sempre capaci o desiderose di dialogare con la comunità professionale più ampia. Ed è ovvio che ciò che non viene elaborato in maniera sistematica, o perché estromesso dal campo dei fenomeni rilevanti per il nostro lavoro o perché eccessivamente in contraddizione con la nostra consolidata identità professionale, è molto più difficile da trasmettere. Dunque, il primo limite che intravedo rispetto ai tuoi stimoli iniziali sul tema della trasmissione è un limite interno alla nostra professione, legato al funzionamento delle sue istituzioni pervase da una certa quota di ipocrisia e di riluttanza a confrontarsi con i propri fallimenti e con le grandi questioni, sociali, sanitarie, politiche, dello scenario complessivo in cui si collocano. Tendiamo a trasmettere ciò con cui ci identifichiamo e con cui vogliamo essere identificati socialmente e rischiamo invece di non trasmettere proprio la nostra disposizione alla ricerca, al pensiero critico, all’esplorazione di nuove visioni e nuove pratiche.
PROFITA: Mi chiedo se è quello che richiedono i formandi?
APREA: A mio avviso non è quello che richiedono coloro che si formano, ma questa forse diventa una seconda questione. Ovviamente essi chiedono riferimenti forti perché sono legittimamente smarriti in un panorama della clinica del mentale estremamente frammentato, in istituzioni di cura molte volte alla deriva, in un mondo professionale che procede oscillando tra iperspecializzazioni e quelle che io chiamo “macro-specializzazioni”, come quelle che identificano l’obiettivo della professione nella cura di “disagi” più o meno esistenziali e sempre più sfumati e cangianti. Tra iperspecializzazioni di presunta efficacia, ovviamente manualizzate, e amplificazione di ambiti e questioni su cui intervenire, è proprio la competenza a leggere ed intervenire efficacemente sulla sofferenza mentale a rischiare di perdersi. Parliamo però di generazioni che arrivano alle nostre formazioni ancora capaci di contestualizzare ed interconnettere esperienze e saperi. Si tratterebbe di alimentare questa loro capacità piuttosto che atrofizzarla. Dobbiamo cercare di guardare a loro avendo una sufficiente chiarezza del mondo professionale in cui si collocano. Si tratta secondo me di un utile esercizio, capace di orientare anche gli assetti formativi. Sarebbe a dire che per organizzare una formazione alla psicoterapia devi imparare a porre lo sguardo su questioni sempre più allargate. Un primo grande scenario, a questo riguardo, per me è quello relativo alla demografia e all’economia della professione psicologica negli ultimi anni. La stragrande maggioranza dei nostri specializzandi sono psicologi e il primo grande dato a questo proposito è che la comunità professionale degli psicologi iscritti all’Albo è formata per il 50% da colleghi che non esercitano la professione. Facciamo un piccolo esercizio di immaginazione: collochiamo questi professionisti, circa 100.000, in un grande stadio. La metà di questo stadio è fatta da colleghi che per ragioni diverse si formano alla psicologia ma non la esercitano. La metà dello stadio occupato da chi è impegnato professionalmente come psicologo è divisa ulteriormente in due parti: un 25% di colleghi che hanno una collocazione professionale stabile e ben retribuita ed un altro 25% di colleghi che, secondo le ricerche dell’ENPAP, non riesce a vivere del proprio lavoro, non per una fase iniziale della professione ma per un periodo molto più lungo, un periodo che rischia di estendere a gran parte della vita professionale quella fatica economica e quella precarietà di impiego che fino a poco tempo fa riguardavano solo la fisiologica fase di avvio della professione. In quest’ultimo spicchio di stadio sono collocati colleghi che in buona parte svolgono un lavoro psicologico che è concepito nelle nuove istituzioni di cura come tendenzialmente assistenziale, una sorta di pratica educativa tutta centrata sulla dimensione del comportamento, del sintomo osservabile, schiacciata su dispositivi di cura duali in cui la patologia mentale torna ad essere questione strettamente individuale, molte volte cerebrale. Non dobbiamo perdere di vista che, al di là delle metodologie di intervento e delle epistemologie riduzionistiche che ispirano le pratiche in questi contesti clinici, i colleghi di questa parte dello “stadio” si confrontano stabilmente, nella loro pratica professionale quotidiana, con uno “scenario comunitario” del loro intervento. Incontrano cioè il loro paziente nella sua complessità sociale e familiare, nei suoi luoghi di vita, prendono contatto con le altre istituzioni che, a vario titolo, si confrontano con la sua sofferenza e le sue conseguenze sociali. Questo scenario di intervento terapeutico comunitario rimane, con le sue risorse conoscitive e trasformative, largamente inutilizzato. A questi giovani colleghi è concesso muoversi in esso, come in una sorta di terra di nessuno, priva di regole ma dunque anche di interdizioni, fin quando non iniziano le pratiche terapeutiche formalizzate. A quel punto gran parte di tale ampio scenario rimane fuori dalle stanze in cui si pratica la clinica ufficiale del mentale, la complessità della psiche dislocata rizomaticamente in una rete di relazioni rimane, letteralmente, al di là della soglia della porta in cui avviene il presunto lavoro di cura. È un dato eclatante: i nostri specializzandi, all’inizio della formazione alla psicoterapia, praticano molte volte già una clinica comunitaria, con grandi capacità di muoversi dentro e tra questi scenari diversi di appartenenza del paziente. Molte volte riescono a maturare, in questo modo, affinate visioni di insieme delle situazioni cliniche che seguono. Ovviamente non sanno compiutamente di farlo, non dispongono di concettualizzazioni che li aiutino a comprendere che il loro paziente, in ultima analisi, è tutto questo: famiglia, relazioni sociali, condizioni e ambientazioni di vita, cultura, istituzioni. Non possiamo non trascurare che una buona parte del 25% di coloro che, nella categoria, occupano i posti professionalmente più comodi, hanno tendenzialmente una clinica quotidiana diversa da quella descritta, hanno meno abitudine a muoversi in queste presunte “aree grigie” della clinica sociale contemporanea. E sono questi i formatori dei primi. Credo che basti riflettere su questo dato per comprendere meglio le radici reali di alcuni grandi problemi che attraversano la formazione psicologica e le stesse scuole di psicoterapia.
PROFITA: Mi fai pensare alla storia del TFA. Molti diplomati da diversi anni che finiscono nella Scuola.
APREA: Gli esempi possono essere tanti. Molti dei nostri iscritti si trovano ad operare in contesti in cui la clinica psicologica è, relativamente alla sua parte formalizzata, diversa da come la concepiamo noi, con un forte baricentro sui sintomi manifesti, non capace di riconoscere l’esigenza dell’estensione dello sguardo del clinico sulle dimensioni biografiche e di appartenenza delle persone sofferenti. Noi sappiamo bene, al contrario, che l’efficacia della clinica oggi, soprattutto nelle situazioni psicopatologiche gravi e quando ci si confronta con persone giovani, dipende dall’estensione del campo osservativo in fase diagnostica e di intervento terapeutico. Questo in pratica significa, in molti casi, avere contemporaneamente e stabilmente molti altri interlocutori oltre al proprio paziente. La risposta terapeutica, nei nuovi contesti di cura, si immagina codificata, manualizzata, con procedure di intervento, fisse e preconfezionate, figlie dell’apparenza ai “modelli” dei professionisti e non invece derivante della lettura dei vincoli specifici della situazione clinica sulla quale si è chiamati ad intervenire. Il sintomo in questo modo perde la relazione con gli scenari più ampi da cui emerge. Ma sono a volte proprio questi contesti clinici, in un cui la clinica psicoterapeutica ufficiale è così improntata ad un riduzionismo di fondo e ad una serialità procedurale, ad essere nei fatti luoghi in cui gli operatori si trovano in contatto, prossimi, alla dimensione comunitaria e sociale della persona che esprime sofferenza mentale. Una dimensione in cui quindi i nostri specializzandi mettono continuamente le mani abbastanza liberamente a patto che non la si chiami, e non la si pensi, come psicoterapia propriamente detta. La pratica reale dunque, soprattutto quella che si realizza in realtà del terzo settore, consente loro questo tipo di esperienza. Il punto è, dunque, se questi giovani colleghi possono incontrare sulla loro strada, a questo punto del loro percorso professionale, una formazione che li aiuti a capire che la loro funzione è proprio lì, su e tra i confini, a descriverla, a concettualizzarla, ad utilizzarla in maniera consapevole, oppure se , al contrario, incontrano una la formazione che, in tacito accordo con la cultura che ispira quelle istituzioni di cura, li convince che la terapia del mentale si realizza solo a condizioni di stabilire rigidi confini, di chiudere ermeticamente le porte delle stanze della cura ai tanti interlocutori capaci di apportare comprensione e trasformazione.
PROFITA: Quello che ispira questi contesti è il modello medico. Mi fa male il ginocchio, far passare il male al ginocchio. Si perde di vista la persona per toccare solo il sintomo.
APREA: Si tratta, in ambito psichico, dell’illusione di intervenire su una situazione specifica con una tecnica specifica. Ma è una logica che non possiamo a mio avviso definire “medica”. Forse più propriamente, potremmo chiamarla “riduzionista”. Purtroppo di questo radicale riduzionismo è intrisa molta pratica psicoterapeutica. Ogni disciplina pratica il riduzionismo a suo modo, noi “psi” sappiamo essere molto efficaci al riguardo…
PROFITA: Hai fatto un quadro sociale della nostra professione. A questo proposito penso che venga dimenticata nelle nostre formazioni la sociologia, la filosofia, in generale la ricchezza del pensiero umanistico che ci permette di vedere tutto quello che malattia non è. La malattia ha senso se viene inquadrata in questo contesto.
APREA: Quelle che hai nominato sono discipline che un terapeuta dovrebbe sufficientemente padroneggiare, come minimo per estendere il campo delle domande che pone ai suoi interlocutori nella fase del comprendere. Quelle domande che servono per ampliare il campo osservativo dei fenomeni ritenuti rilevanti per l’analisi della situazione clinica. Dato che, per il riflesso automatico descritto, il campo d’indagine, e ahimè, di intervento, è ridotto all’individuo e al sintomo, le competenze che ti servono per allargare lo scenario, questi saperi che hai citato, semplicemente non servono, sono disattivati nel loro potenziale euristico. Credi di non averne bisogno, non le padroneggi, non le affini, non le utilizzi nella clinica per lasciarti guidare nella comprensione e nelle scelte. Hai già deciso che non sono utili e, dunque, non le approfondisci e non le trasmetti nella formazione professionale istituita. Si tratta di saperi fondativi anche della storia nostra disciplina che vengono di fatto progressivamente dismessi. Quello che ne deriva, a mio avviso, è una clinica ed una formazione non solo impoverita ma direi “deteriorata” da questo restringimento di campo di ciò che è considerato rilevante.
PROFITA: Una clinica “declassata”.
APREA: Anche. Il primo grande sforzo da fare per evitarlo è quello di aiutare anche noi stessi che organizziamo la formazione alla psicoterapia a comprendere che per essere efficaci clinicamente devi sapere molte volte allargare il campo osservativo e di intervento, e per realizzare questo allargamento c’è bisogno di competenza. Una competenza anche interdisciplinare. Non è per niente un tema estraneo alla stessa psicoanalisi.
PROFITA: Se guardi ai grandi modelli da Freud in poi, se tu pensi a “Totem e tabù” a “Psicologia delle masse”, capisci bene che il campo era vastissimo nella mente dei padri fondatori, era inserito in una dimensione corale.
APREA: Poni una questione centrale. I processi di cui ho parlato, estranei alla logica scientifica, tendono a sacralizzare le “teorie” e i cosiddetti “modelli”, piegandoli ad una finalità a loro, in realtà, del tutto estranea. Se sacralizzi qualcosa lo poni al di fuori della storia, dei suoi mutamenti, delle sue precarietà, delle sue imprevedibilità, delle sue sperimentazioni e ibridazioni, delle sue criticità. In molti momenti di confronto con i colleghi nel nostro ambito questo è molto evidente: finiamo per pensare alle nostre discipline sostanzialmente fuori dalla storia, non più in rapporto con i grandi fenomeni sociali e politici, di un dato contesto in una certa epoca, che di fatto definiscono le possibilità umane di vivere, di pensare, di relazionarsi e rappresentarsi. Ignorare la storia è proprio quello che insegniamo a non fare con i nostri pazienti e che invece mi sembra che largamente pratichiamo con le nostre epistemologie. Si potrebbe dire che oggi abbiamo bisogno non solo di continuare a storicizzare il paziente, come ci ha insegnato la salute mentale di comunità e la psichiatria critica, ma anche di storicizzare il terapeuta. Anzi, pensando allo scenario descritto, oggi la vera pratica fortemente innovativa è la seconda perché, a differenza di 40 anni fa, a causa della istituzionalizzazione su base aziendalistica, privatistica e burocratica della sanità, dell’autoreferenzialità delle comunità professionali dell’ambito e dell’assenza di movimenti politici e culturali capaci di connettere ampie istanze sociali con i problemi della salute mentale, è solo da essa che può derivare la prima. A furia di restringere il campo di pertinenza del nostro oggetto e di separarlo da quello di altre discipline che di quell’oggetto indagano altri aspetti e problemi, ci ritroviamo sempre più aggrappati alla zattera dei nostri saperi limitati nel grande mare della complessità della clinica. E se sei aggrappato a qualcosa sicuramente non puoi avere con quella cosa una relazione sufficientemente libera, cosa questa che paghi quando il tuo sapere perde la “presa” sul reale in costante mutamento e necessita di essere ripensato e aggiornato. Se ci pensiamo non è stato per niente questo il modo di pensare e procedere nella ricerca dei padri fondatori della nostra disciplina. A furia di preservarne in maniera distorta la memoria abbiamo sterilizzato la carica esplorativa del loro modo di procedere. Come ho detto, abbiamo scelto, perché molto più rassicurante, di trasmettere i loro pensieri, reificando teorie a servizio delle nostre esigenze di affermazione e difesa delle nostre identità professionali, non il loro modo di pensare.
PROFITA: E adesso cosa ne facciamo dei nostri saperi “archeologici”? Come possiamo utilizzarli senza sprecarli, perlomeno come metodo, come stile? E nello stesso tempo come fare affinché questo non diventi conservazione? Il tema è il rapporto tra tradizione e modernità: capire cosa è la tradizione e come utilizzarla, ma anche leggere la modernità. Allora il problema è, per esempio, cosa possiamo conservare senza essere conservatori, cosa possiamo innovare?
APREA: Secondo me una cosa irrinunciabile della “tradizione”, se proprio la vogliamo chiamare così, è la tensione fortemente esplorativa che ha animato la ricerca clinica. Le teorie dei grandi pensatori della nostra disciplina sono sistemi di pensiero figli di esplorazioni cliniche, sono il frutto del confronto con ambiti di intervento complessi e con i problemi, anche etici e politici, posti dalla sofferenza mentale e dalle sue conseguenze sulla vita delle persone, delle famiglie, delle loro comunità. Quelle concettualizzazioni erano fatte di pratiche attente in cerca di teorie, aperte costantemente alla falsificazione e dunque ad esplorazioni successive. Nel nostro campo c’è un solo modo di falsificare utilmente le nostre teorizzazioni, è quello di ragionare a fondo sui nostri fallimenti clinici, sulla cronicità generata da sequenze di interventi inefficaci, molte volte realizzatisi in diversi contesti di cura e a partire dall’età infantile del paziente. Questo ragionamento sistematico, direi anche spietato, è il grande assente, è il fantasma che si aggira sinistro nelle nostre “case” professionali. Le teorie si sacralizzano e la loro inefficacia si tabuizza, questa è la perversione di fondo del nostro contesto. Il “modello” è, nella sua accezione scientifica, appunto una costruzione teorico-concettuale, una rappresentazione schematica, anche se molto affinata, del fenomeno, costantemente in cerca del fenomeno stesso, della sua irriducibile e ulteriore complessità. Quello che vedo oggi è che questa dimensione, questa inclinazione all’esplorazione dei fenomeni al confine tra discipline diverse, diventa quasi del tutto desueta. Quando mi trovo a leggere un testo “classico”, mi balza quasi sempre agli occhi quanta rigorosa creatività e curiosità c’era nei pensieri degli autori, quanto respiro ampio dietro e dentro le teorizzazioni. Della tradizione è irrinunciabile quel tipo di postura, l’ampiezza di sguardo sui fenomeni, la curiosità, l’esplorazione, l’interrogativo acuminato posto su ciò che genera e perpetua inefficacia clinica. Bisognerebbe conservare questo, il posizionamento sistematico sui nuovi confini conoscitivi. E conservare questo, oggi, vuol dire innovare profondamente.
PROFITA: Tu hai molto parlato delle due facce che si guardano, che si confrontano, della stessa medaglia, quella dei trasmissori e quella dei riceventi. Ho chiesto recentemente a Silvana Koen, Presidente COIRAG, “chi si occupa dei formatori”? Non ci occupiamo mai dei formatori, che sembrano in realtà invisibili, nel senso che non fanno parte della nostra attenzione e la cosa che mi colpisce è che mentre tanti allievi, anche nelle loro esperienze, sono comunque sottoposti ad una costante osservazione del loro operato i nostri docenti mi sembrano sclerotizzati nella replica del “loro” modello. Ecco le due facce della stessa medaglia: da una parte i nostri allievi, un po’ naif naturalmente, seguiti tanto o poco in quello che fanno, comunque capaci e votati al sacrificio, dall’altro i detentori dei nostri supposti saperi…
APREA: È il grande tema, la vera questione innominabile del nostro lavoro formativo. Le scuole di psicoterapia sono il campo di osservazione privilegiato di nodi etici ed epistemologici della nostra professione. Le facce della medaglia a cui ti riferisci sono, come detto, molto distanti, rappresentano una diversità strutturale, anche di sguardo, che attraversa la nostra categoria professionale. C’è un gruppo di formatori che, in molti casi, tende a dare per scontato un tipo di clinica che non è la clinica di chi lavora nelle istituzioni di oggi e di chi inizia la professione. Per chi è più avanti nella professione la cosiddetta “clinica-sociale”, che si realizza nei contesti di intervento in cui sono impegnati i colleghi più giovani, è una sorta di lavoro preparatorio alla terapia, non la terapia stessa. Ma se stabilisci questo tipo di confine ti perdi la possibilità di continuare a generare concettualizzazioni più affinate sulla patologia e sul cambiamento psichico. Non puoi utilizzare a questo scopo i ricchissimi fenomeni che sono al di là di quel confine che hai arbitrariamente stabilito, i fenomeni della parte presunta non terapeutica del territorio clinico. Ci sono forse temi che accomunano anche queste due facce opposte della medaglia: soprattutto le difficoltà cliniche generate dal fatto che arrivano anche negli studi dei formatori più esperti, così come ovviamente dei giovani, situazioni di grave psicopatologia estremamente sfidanti per le procedure codificate dai cosiddetti “modelli”. Io credo che questa comune impasse potrebbe essere estremamente fertile dal punto di vista del pensiero, bisognerebbe però assumerla pubblicamente e metterla sotto la lente di osservazione critica dei nostri saperi di riferimento. Ma è molto difficile che ciò si realizzi perché comporterebbe un’inevitabile bilanciamento di posizioni di potere a servizio della ricerca scientifica. Per perpetuare disparità di potere, che nella formazione è fatta delle posizioni reciproche di “portatori di sapere” e “ricettori di sapere”, devi allontanarti dall’analisi da questioni cliniche di estremo rilievo. La logica generativa sarebbe mettere insieme le competenze più solide e affinate dei docenti con i problemi e i vincoli posti dai nuovi contesti di intervento degli specializzandi, contesti a cui bisognerebbe riconoscere pieno statuto di lavoro psicoterapeutico. Se ci lasciassimo guidare dai nostri specializzandi nelle pieghe delle loro difficoltà cliniche in questi contesti ne avremmo il vantaggio di posizionare un’ampia comunità di professionisti esperti sui nuovi confini conoscitivi e clinici. L’arricchimento sarebbe reciproco. Tendenzialmente però non accade. La ricerca dei giovani di un sapere “monolitico” nelle sue certezze e, dunque, apparentemente rassicurante, collude con la seduzione del potere di una compiuta conoscenza dei professionisti senior, seduzione alimentata dai ruoli istituzionali che la formazione dispensa. In questo modo interrogativi di grandissima utilità non emergono e nuovi pensieri non nascono. Evidentemente rompere questa collusione sarebbe responsabilità degli esperti ma l’inerzia istituzionale è enorme, molte volte soverchiante. C’è voluto il Covid-19 per fare in modo che pratiche precedentemente rigettate quasi sdegnosamente dai supervisori delle scuole di psicoterapia venissero accolte e indagate riconoscendo ad esse la piena dignità della clinica. È qualcosa che non ha richiesto decenni di elaborazioni ma un paio di mesi… Basterebbe questo a mostrarci quanto ci sia in realtà di istituzionale e di professionale (e ovviamente di economico) in quello che viene continuamente sbandierato come epistemologico. Sono bastati due mesi per sgretolare pompose e magniloquenti argomentazioni dominanti per decenni. Dunque, quali erano i presupposti scientifici di tali argomentazioni? Che cosa ne ha prodotto la prevalenza incontrastata nelle più prestigiose associazioni professionali e nelle loro scuole? Di fronte ad un cambiamento, anche nella formazione, di tale epocale portata, ci aspetteremmo una riflessione seria soprattutto “sul prima”, su ciò che era considerato talmente ovvio da poter esser dato per scontato e che si è rivelato non esserlo. Non è un caso, a mio avviso, che questa riflessione manchi.
PROFITA: Perché la cosa che io ho sempre pensato ha a che fare con la parola “rischio”. Provo a precisarlo. Il nostro lavoro è un lavoro di sfida ed è un lavoro in cui ogni paziente è talmente nuovo che la tua esperienza non ti serve mai completamente, devi sempre rischiare qualcosa di nuovo. Rispetto al paziente devi assumere una posizione di rischio, non sai mai cosa succede, come risponde, come tu rispondi, o ti posizioni rispetto a lui, quindi il problema è: “quanti professionisti hanno disponibilità al rischio?”. Credo che si acquisisca mai una piena sicurezza e replicabilità del proprio mestiere. Qui ti porto dentro una questione che riguarda l’identità. C’è una cosa che mi ha colpito, perché in realtà è ciò che io penso e studio da tanto tempo, che ha detto Pier Francesco Galli: “la formazione è fatta, ad esempio, dall’imparare a non essere nessuno”, cioè esattamente il contrario del supposto sapere. Io non so nulla, un po’ socratica come posizione, ma anche tecnica. Da tanto tempo discutiamo, nell’accademia che abbiamo fondato anni fa, sul problema della soggettivazione, su come si assume un’identità personale e anche professionale. Una delle cose più importanti è il rapporto che esiste tra de-soggettivazione e ri- soggettivazione. Mi riferisco per esempio a qualche studio che ho fatto sulle comunità monacensi in cui la prima cosa che si fa è affermare “tu non sei proprio nessuno”. In queste comunità spogliano in un cerimoniale la persona della propria identità. Dunque, spogliare l’identità, francescanamente, per poi poter cominciare a costruire un’identità nuova, quella del monaco. Allora, questo è quello che mi interessa, secondo me la professione curante, in generale è una professione dove la tecnica c’è, ma passa attraverso una spoliazione di sé, di tutto il precedente, per poter assumere un ruolo nuovo.
APREA: Mi fai pensare al grande tema della decostruzione del sapere come tema cardine della formazione. Decostruire un sapere vuol dire farlo emergere innanzi tutto, renderlo esplicito, sottoporlo a uno sguardo critico, chiarirne le implicazioni operative, in qualche modo smontarlo dall’interno proponendo uno sguardo più ampio, più complesso, più affinato. Occorre una grande competenza per fare questa operazione, direi soprattutto la competenza a riconoscere le sclerotizzazioni silenziose che attraversano tutta la disciplina e, dunque, lo stesso formatore. Occorre uno sguardo molto ampio sulla trasformazione dei paradigmi, su ciò che la produce e sui mandati impliciti che il sociale affida, di epoca in epoca, ai professionisti della cura. Sono le cose molto vere, come l’imparare a “essere nessuno” che hai citato, che però, se non analizzate a fondo, rischiano di tramutarsi in caricature in qualche modo a servizio dell’inerzia del pensiero. Prendo la questione da un altro versante. Solitamente sento i nostri colleghi formatori ripetere agli specializzandi una cosa, che in sé è molto saggia: “bisogna saper permanere nel dubbio”. Ma bisognerebbe aggiungere che il dubbio non è smarrimento, il dubbio è il travaglio di un esercizio critico sistematico e che per praticarlo occorrono strumenti concettuali solidi e “appuntiti” che è responsabilità dello stesso formatore offrire. Lo strumento più significativo in tal senso sono conoscenze, riflessioni, conoscenze attraverso le quali “pensare quei pensieri” che sono così potenti da farci agire in maniera riflessa. Soprattutto è necessario, a mio avviso, far riferimento a saperi che ci permettono di analizzare i paradigmi che come professionisti ci attraversano. La nostra professione non trasmette questi saperi e sono questi gli stessi saperi che ci servono per stabilire legami ed interconnessioni con altre discipline. Morin, citando il nome di una famosa tassa degli antichi Romani, ne parla come della “decima epistemologica”: bisognerebbe sottrarre ai percorsi formativi il 10% delle ore previste e farne insegnamenti sui presupposti del sapere, sui modi, i limiti e le caratteristiche della nostra conoscenza. E io alla “decima epistemologica” di Morin aggiungerei la “decima politica e professionale”. Si tratterebbe di trasmettere conoscenze su un altro ambito lasciato sguarnito dalle nostre formazioni: la storia e l’organizzazione delle istituzioni di cura e professionali e il loro rapporti con le grandi questioni politiche, etiche e sociali di una data epoca storica. Questo vuol dire anche “storicizzare” il professionista, permettergli di pensare l’impensato dei grandi fenomeni che definiscono le reali possibilità delle sue pratiche, che danno forma al suo ruolo sociale. La grande riforma della psichiatria e della salute mentale in questo paese non è derivata da sofisticate argomentazioni teoriche ma dall’assunzione deliberata da parte di gruppi di operatori della rilevanza etica, giuridica, legislativa delle caratteristiche delle istituzioni di cura in cui erano inseriti, del destino delle persone sofferenti loro affidate e delle contraddizioni stridenti dei loro ruoli socialmente istituiti. Se di fronte allo smarrimento dello specializzando alle prime armi ti limiti sostanzialmente a dire “permani nel dubbio” il rischio è che questa nobile esortazione nasconda l’elusione di problemi rilevanti o anche l’ignavia di chi la pronuncia. Che abbiamo difficoltà a guardarci criticamente te lo argomento anche in altro modo. Anche in una comunità ampia e autorevole come quella della COIRAG, comunità di professionisti che ispirano le loro pratiche ad una prospettiva analitico-gruppale della mente e della cura, abbiamo moltissima clinica organizzata intorno a campi terapeutici duali. Definisco tale sia quella che prevede il lavoro del terapeuta con il suo paziente singolo ma anche quella in cui sono coinvolti il clinico e il suo gruppo terapeutico. Sono campi terapeutici accomunati da una fissità di configurazione in cui, rispetto alla singola storia clinica di cui il professionista è responsabile, egli stesso ha sempre e solo un solo interlocutore. Se lo si volesse assumere scientificamente sarebbe un tema straordinario per guardarci criticamente. Una sorta di coesistenza sotterranea, dunque poco pensata nelle sue implicazioni, di due epistemologie a forte discontinuità all’interno della stessa realtà scientifico-professionale. Ma è una riflessione fin qui assente. Per praticare adeguatamente una psicoterapia analitico-gruppale dovremmo avere le competenze capaci di guidarci nella costruzione di campi terapeutici multipersonali, campi di intervento dove tu possa lavorare al bisogno con la rete in cui è inserito il tuo paziente in configurazioni variabili di incontro.
PROFITA: Si tratta della rete in cui sei inserito anche tu stesso come clinico.
APREA: Vero, e questa difficoltà a tessere comunità tra i professionisti lo ritroviamo anche dentro la scuola. L’indicatore è dato dalle criticità che regolarmente registriamo, ad esempio, nell’organo dei “collegi docenti”. E di questo secondo me possiamo parlare come di qualcosa che accomuna molte scuole. Chi si impegna in una scuola è disponibile a partecipare realmente ad una elaborazione comunitaria?
PROFITA: In realtà anche nella concezione del gruppo ognuno immagina lui stesso come vertice, un vertice che non ha nessuno intorno, mi verrebbe da dire una sorta di “padreterno” con i suoi discepoli. Non immagina e non si pensa all’interno di una rete professionale ed extraprofessionale, anche istituzionale, anche politica, di cui di fatto è parte.
APREA: Lo vediamo continuamente anche nella clinica, soprattutto nelle situazioni complesse in cui devi saper impostare dispositivi in genere mobili, con una pluralità di interlocutori. Anche la clinica, molte volte, è gestita da un gruppo di operatori che tendenzialmente non si parlano tra di loro perché i dispositivi sono concepiti a compartimenti stagni. Nella formazione possiamo avere una riproduzione di questa frammentazione di campo. Non si riflette, credo, mai abbastanza sul fatto che tale frammentazione ha importanti implicazioni sulla responsabilità professionale. Se crei una situazione in cui ogni professionista è responsabile solo ed esclusivamente della sua piccola area clinica in cui è chiamato ad intervenire chi assume la responsabilità delle grandi questioni etiche, giuridiche, sociali e psicopatologiche emergenti dall’interezza del campo mentale e terapeutico di quella specifica situazione clinica in cui, ovviamente, tutti i fenomeni e gli ambiti che delimitiamo sono tra loro regolarmente interagenti? Non ci sarebbe bisogno di scomodare Hannah Arendt per comprendere le direzioni che può prendere questo modo di procedere.
PROFITA: Questa riflessione mi rinvia comunque ad una questione che noi abbiamo affrontato nel primo numero di Plexus dal titolo “Dove è finito il gruppo?”, che riguardava soprattutto questo: la mente degli stessi gruppetti può essere incentrata sull’individualismo.
APREA: è il tema che accennavo prima: il paradigma analitico- gruppale non è sufficientemente ben differenziato, al nostro stesso interno, dal paradigma analitico. Te lo posso dire empiricamente dal lavoro fatto coi colleghi della scuola. La riproposizione quasi riflessa del campo duale nella fase del comprendere e in quella dell’intervento ha un implicito rilevantissimo. Se stai utilizzando il campo duale tu clinico stai assumendo che il mondo interno del tuo paziente ricapitoli sufficientemente bene il suo mondo esterno. Ti basta l’altro interiorizzato, non hai bisogno di quello reale. Ma questo che dai come assunto non è per niente vero sempre. Se lo dai per vero sempre, prendendo così una parte per il tutto, stai compiendo un’operazione con grandi implicazioni per l’efficacia clinica del tuo intervento ed anche, a mio avviso, un’operazione estremamente riduttiva dell’epistemologia gruppale a cui scientificamente ti riferisci.
PROFITA: Molto interessante tutto quello che stiamo dicendo, perché mi sembra che contenga il progetto dei prossimi anni della scuola. Per certi versi ho l’impressione che siamo di fronte alla prospettiva di una sparizione della psicologia intesa in senso individualistico. Anche dal punto di vista istituzionale, mi riferisco alla riforma universitaria, siamo di fronte a un frazionamento del sapere che è fonte di una grande dispersione di conoscenze. I ragazzi non capiscono, smarriti tra insegnamenti ad epistemologie diverse, come mettere insieme quello che hanno studiato oggi con quello che avevano studiato ieri e che studieranno l’indomani. Ed è quello che dicevi tu, questi ragazzi oggi non hanno più nessuna idea complessiva del mondo che gli è rappresentato per frammenti, che non riescono a ricostruire.
APREA: La formazione universitaria, come sappiamo è, senza limiti di accesso, e tende ad assestarsi sulla trasmissione di una cultura psicologica piuttosto che sullo sviluppo di capacità professionali, tantomeno connesse ai bisogni clinici e sociali esistenti ed emergenti. Le Facoltà di Psicologia diventano la rappresentazione di una sorta di ecumenismo di bassa lega di paradigmi scientifici in salute mentale che rimangono perlopiù impliciti nei vari insegnamenti, semplicemente giustapposti l’uno accanto all’altro e in ordine sparso lungo l’arco del percorso di studi. Si lascia allo studente un compito impossibile, quello di realizzare un’organizzazione del sapere psicologico che dia ragione della complessità dello scenario clinico ed epistemologico dell’ambito. La competenza a comprendere e governare la complessità della clinica questi laureati la vengono a cercare nei percorsi post-lauream che noi organizziamo. E rispetto a quello che ci stiamo dicendo la cosa veramente problematica però è che molte volte rischiamo di non averla neanche noi questa visione complessa!
PROFITA: A me l’università ha dato una visione. C’era nella costruzione del sapere universitario un’idea di quello che tu dovevi essere, di ciò a cui ti dovevi formare e riusciva a mettere insieme tante cose ed anche i professori ti aiutavano in questo compito. Successivamente ho visto una università in cui ognuno fa un pezzettino di lavoro slegato da quello dell’altro.
APREA: Se tu vedi le ricerche del CNOP o dell’ENPAP che dovrebbero essere le massime autorità della comunità professionale in Italia, molte di esse sono orientate al mercato. Si cercano nicchie di mercato in cui una categoria a demografia crescente possa collocarsi con buone prospettive di reddito. Come comunità professionale sembra che abbiamo bisogno continuamente di nuove “terre promesse” in cui realizzare le nostre presunte “magnifiche sorti e progressive”. Quello che manca è la possibilità di orientare la ricerca e la riflessione sulla comprensione della società in cui la psicologia esercita la sua funzione. Abbiamo un mondo professionale che perde come riferimento la società e la sua complessità e va a studiare il mercato. Ed è chiaro che questo lo scontiamo anche nella nostra formazione. Per leggere il mercato ti servono discipline, categorie, costrutti diversi da quelli che ti servono per leggere le dinamiche di una società. E di conoscenze che ci aiutino a capire la società in cui si formano le menti, i gruppi e le comunità secondo me, come professione, abbiamo un disperato bisogno perché siamo di fronte a trasformazioni epocali e strutturali di quelli che Kaës chiama i garanti meta-sociali della psiche. Trasformazioni in progressiva accelerazione, a valanga, che perdono il carattere di transitorietà e si installano nelle nostre vite come forze generatrici di continue e radicali discontinuità nei modi di vivere e rappresentare noi stessi, le nostre relazioni, il nostro posto nel mondo. Tali discontinuità radicali possono manifestarsi anche più volte nell’arco di una stessa generazione. È la prima volta che nella storia umana siamo confrontati con mutamenti di questa portata ed è francamente sconcertante che i professionisti della psiche guardino a tutto questo tendenzialmente con poco interesse. Se tu prendi sul serio l’idea che nella nostra psiche c’è il sedimento delle matrici collettive, noi viviamo in un’epoca storica in cui i fondamenti di queste matrici cambiano radicalmente ad un ritmo vertiginoso. Se come professionisti siamo sommersi da ricerche di mercato e ci muoviamo nel vuoto di analisi sociali, vuol dire, di fondo, che abbiamo perso di vista il fatto che i fenomeni psicopatologici hanno a che fare con un mondo, un mondo sociale. Come Scuola COIRAG abbiamo tentato di reagire a questo mainstream professionale inserendo stabilmente nella formazione seminari che riguardano, ad esempio, la sociologia e il diritto di famiglia, l’antropologia dei gruppi e dei sistemi di parentela, l’organizzazione dei sistemi di cura e il loro rapporto con le istituzioni sociali. Si tratta dell’inizio di un percorso, ma è stato incardinato un processo. È utile dire che quando abbiamo pensato di portare questi insegnamenti dentro la formazione ufficiale della scuola di psicoterapia la vera difficoltà è stata interna. Come dire che la vera questione difficile da maneggiare è trarre le logiche conseguenze dell’adozione di una certa prospettiva scientifica, portarne le implicazioni nella clinica e nella formazione. Di fronte a questi processi di cambiamento avevamo la Commissione Tecnico- Scientifica del MUR per le Scuole di Psicoterapia che ci diceva: “va bene, questi nuovi insegnamenti che proponete li riconosciamo come fondamento delle competenze dello psicoterapeuta”. Capisci? La vera resistenza era nostra, interna. Alcuni colleghi, anche autorevoli, di fronte a queste proposte ti venivano a dire, a margine delle riunioni, che “così facciamo la Scuola per assistenti sociali.” Come se poi gli assistenti sociali fossero meno importanti di noi… Tieni insieme questo tipo di esperienza che ti porto con la considerazione scientifica secondo la quale la nostra mente sia il sedimento e l’intreccio di matrici collettive, considerazione, che come comunità professionale, ripetiamo solennemente e di continuo, anche nei tanti documenti ufficiali della Scuola. C’è dunque qualcosa che non funziona: c’è uno scarto tra quello che riconosciamo scientificamente e quello che pratichiamo, uno scarto la cui natura, per me, ha a che fare con le questioni che ho cercato di evidenziare. Dunque, va bene fare delle dichiarazioni generali, poi, se hai l’ardire di trarne le conseguenze, ad esempio cercando di portare nella formazione le discipline che ti aiutano a capire la natura e le trasformazioni di queste matrici collettive, le dichiarazioni generali incontrano inaspettatamente obiezioni vaghe e cavillose dagli stessi dichiaranti o da parte di essi. Chi si assume il compito di generare pensiero intorno a queste aporie di cui è piena la nostra pratica professionale e formativa?
PROFITA: Ultima questione, riguarda la “divinazione”. Come pensi che finirà tutta questa storia? Capisco che è molto rischioso quel che ti sto chiedendo. A partire dalla tua esperienza e dalla tua intelligenza e visionarietà. Ti ho ascoltato tante volte mi sembri un visionario, nel senso migliore del termine, che ha visione, una prospettiva, un orizzonte, mentre tante volte tra di noi devo dire ce ne è poca. Si è molto attaccati, abbarbicati alla replica di sé stessi. Ti chiedevo qualcosa di visionario sulla psicoterapia, sulla psicoterapia di gruppo, su questa epoca della secolarità. Io ogni tanto mi metto nei panni tradizionali e tradizionalisti e penso a quale cambiamento c’è stato negli ultimi secoli dalla sacralità alla secolarità, da un mondo che vedeva una trascendenza, che faceva da guida, in cui si poteva dire “figlio mia questa è la vita e ti devi arrangiare”, ad un momento in cui cambia radicalmente la prospettiva sulla vita, in cui si è sempre in cerca di qualcosa di più promettente da realizzare però nell’immediato.
APREA: È ovviamente molto difficile quello che mi chiedi. Io credo che nella situazione professionale in cui siamo, quella che in parte ho cercato di descrivere, possiamo imparare e cambiare solo andando a sbattere. Molte volte è solo così che riusciamo a generare nuovo pensiero. Dobbiamo cercare di vedere con grande lucidità non tanto la prospettiva della nostra scomparsa, perché da un punto di vista economico, come professione, forse reggiamo anche altri 50 anni, ma la prospettiva della nostra progressiva ed inesorabile perdita di credibilità, autorevolezza e rilevanza sociale. Se moriremo, moriremo di irrilevanza. Una morte lenta di cui ci renderemo conto quando sarà già troppo tardi. Secondo me questo è qualcosa che sta già accadendo. Abbiamo il Ministero che, anche se da un lato ha stabilito dei criteri molto dettagliati e stringenti per valutare gli ordinamenti delle scuole di psicoterapia, essendo questi criteri formali ed i controlli operati meramente documentali, continua dall’altro ad approvarli e dunque a istituire nuove scuole. E poi abbiamo contemporaneamente una serie di giovani operatori, psichiatri e psicologi, che entrano nelle istituzioni di cura, quelle contemporanee in cui sempre più la salute mentale è gestita da realtà accreditate private e del privato-sociale, scoprendo sulla loro pelle che il re dei “modelli” è miseramente nudo. Sono giovani professionisti affamati di conoscenza e animati da una grande carica trasformativa. Tutto quello che possiamo fare, ed è un compito enorme, non so se visionario, è impedire che si cronicizzino anche loro come gli utenti dei loro servizi. Per farlo la grande sfida è la complessità, la grande rivoluzione epistemologica della complessità, tradita e immiserita dalla sua reclusione negli ambiti delle sole teorizzazioni, teorizzazioni sempre più distanti dalle pratiche reali, cliniche e formative. Bisogna aiutare questi colleghi a concepire dispositivi di cura in forte coerenza con i presupposti epistemologici di fondo di psicoterapie ispirate alla prospettiva della complessità. Per farlo dobbiamo cambiare radicalmente la formazione. Per me, a questo riguardo, il tema di fondo è così sintetizzabile “partire dalla complessità, non pretendere di arrivarci”. Vuol dire che nella formazione, fin dal primo anno della scuola di psicoterapia, dovremmo trasmettere competenze per permettere ai colleghi di reggere la complessità di campi diagnostici e di intervento multipersonali capaci di ospitare, al bisogno, oltre che i familiari del paziente anche i rappresentanti delle altre agenzie sociali (scuole, tribunali) coinvolte nella sua situazione di sofferenza mentale. Una formazione capace di dotare il clinico in formazione dei saperi e delle competenze per far emergere, cogliere, distinguere e continuamente interconnettere tra loro i piani presenti, in maniera intrecciata, nella stessa situazione clinica: fenomenologia psicopatologica, scenario familiare e sociale, ambientazioni di vita e risorse disponibili, vincoli istituzionali e mandati sociali degli operatori nella situazione data. Solo da una visione complessiva di questo scenario è possibile che derivi una clinica del mentale efficace. E, tale visione complessiva non può essere il prodotto della mera giustapposizione additiva di campi di osservazione e di intervento concepiti come frammentati, campi governati da operatori che gestiscono in autonomia e solitudine il singolo “pezzo” loro assegnato attraverso l’esercizio di competenze ben delimitate. Dunque una formazione che insegni a leggere precocemente l’intero ecosistema mentale che dà forma al disagio e alla sua possibile evoluzione. Occorre invertire la logica nella formazione: insegnare a chiedersi non quando è necessario allargare il campo diagnostico e di cura ma, al contrario, quando è necessario restringerlo. Bisogna partire “larghi” con il proprio sguardo, e per non perdersi nella vastità dello scenario che in tal modo viene visualizzato, c’è bisogno di una formazione che, continuamente, aiuti a cogliere le variabili agenti sui vari piani e ad interconnettere ed articolare questi piani tra loro. In ultima analisi abbiamo bisogno di una formazione che ricollochi l’oggetto di studio disciplinare, l’uomo con la sua esperienza psichica, nei contesti da cui le singole discipline regolarmente lo estraggono, perché è precisamente al confine di questi contesti che la mente involve ed evolve. Ed è ovviamente quello il posto dello psicoterapeuta. Questa terra di confine, in cui diversi codici di ibridano, si confrontano e si oppongono, non è in sé un luogo confondente. Lo diventa soltanto se il professionista impara precocemente ad abitare solo uno dei territori della vita mentale del suo paziente. Nelle terre di confine si parlano lingue diverse, gli usi e le tradizioni comunicano. Per noi psicoterapeuti questo significa padroneggiare almeno i rudimenti essenziali di più ambiti disciplinari. Per disporci a farlo dobbiamo poter pensare il nostro stesso pensiero disciplinare, perché questo pensiero che ci consente di guardare tra le pieghe della nostra disciplina, delle sue aporie, dei suoi paradigmi dominanti, delle sue opacità etiche e scientifiche, è lo stesso pensiero che ci permette di collegare le discipline diverse tra loro e che ci consente di utilizzarle consapevolmente e sinergicamente nel nostro operare. Nel mio piccolo ho cercato di riformare la Scuola COIRAG per renderla capace di questo È un lavoro in gran in parte da compiere e che di sicuro incontrerà resistenze, nodi, regressività più o meno marcate. Ma abbiamo forse dimostrato con il lavoro svolto che è possibile andare in questa direzione.
PROFITA: Quando prima parlavo di scomparsa della nostra professione era proprio per sottolineare che perde contatto con ciò vitale, non è più capace di dare prospettive nuove, diventa una ecolalia, una replica. Se l’orizzonte conoscitivo si sposta tu vai avanti, se sta fermo anche tu professionista rimani fermo.
APREA: Se rimani aderente all’oggetto del tuo lavoro rimani vivo. E l’oggetto del nostro lavoro si sposta, l’uomo è un essere calato nella storia, determinato dalle macro-trasformazioni sociali in perenne mutamento, dentro una cultura, dentro codici giuridici che definiscono la forma delle sue aggregazioni e il suo stesso ruolo in una comunità. Per connetterti alle passioni degli operatori, quelli non ancora cronicizzati, devi muoverti costantemente nel tuo sapere e nella tua pratica per rimanere prossimo al tuo oggetto. Se hai questa bussola le passioni le conservi vive e qualcuna riesci anche a rivitalizzarla. Detto in altri termini, di volta in volta, di contesto in contesto, di epoca storica in epoca storica, devi capire dove è il tuo paziente. Se capisci dove è capisci anche qualcosa di chi è. E lo stesso vale anche per il professionista.
PROFITA: Anche se la cosa sembra è labirintica è sempre stimolante.
APREA: Lo studio della complessità dei fenomeni implicati nella sofferenza mentale è l’unica cosa ancora in grado di entrare in dialogo con la passione di chi ancora questo lavoro lo vuole veramente fare. Tutto il resto a un certo punto, nell’epoca, che nei percorsi professionali è sempre più precoce, del disincanto, te lo ritrovi ad un certo punto addosso come una sorta di orpello, qualcosa che sicuramente ti ha aiutato ad avere un posizionamento nel tuo mondo lavorativo, a volte a pensare, a riconoscerti in un gruppo, ma che ti è relativamente poco utile per assumere sul serio la responsabilità della clinica che hai di fronte. È lo studio della complessità il pane per i denti di chi ha fame di imparare a fare questo lavoro, di chi ha idealità, di chi ha fame di futuro per sé e per gli altri. Una volta un collega appena diplomatosi che aveva partecipato ad uno degli incontri associativi in cui i seniores prefiguravano foschi presagi per il futuro mi ha detto, riferendosi alla sua generazione: “noi non possiamo permetterci di deprimerci”. Bene, il nostro maggior alleato è il desiderio di una generazione professionale di andare avanti, di trasformare, di porre questioni, di sperimentare pratiche, se serve anche di salire sulle barricate. Come i parigini del ’68 abbiamo nelle cantine polverose dei nostri saperi accumulati e dismessi molto materiale che possiamo portare utilmente su quelle barricate e forse, nel farlo, salviamo anche un po’ noi stessi.
PROFITA: E lo studio della complessità passa anche attraverso la capacità di esplorare i terreni limitrofi.
APREA: Esattamente.
PROFITA: Se tu vedessi tutti i libri che ho disseminati qui, cose che hanno a che fare con la linguistica, il romanzo, sociologia, filosofia, perché sono per me fonte continua di curiosità. Aprono mondi.
APREA: Il grande rischio che vedo è che la prospettiva della complessità diventi un lusso di chi se la può permettere, invece la complessità è semplicemente necessaria ed è fondativa di tutte le altre competenze specifiche. Bisogna incontrarla presto e bene. È questo incontro che la formazione dovrebbe rendere possibile.
PROFITA: Per fare questo bisogna uscir anche dalla dimensione del semplice mestierante, riacquistare quella capacità quella curiosità. Devo ringraziarti moltissimo.
APREA: grazie a te per la possibilità di dialogare su queste questioni.
Elisa De Vita, Irene Fonti, Umberto Marrone, Stefano Squillacciotti
Intervista a cura del Direttivo di Rivista Plexus (11/04/2023)
Elisa De Vita (sede di Palermo), Irene Fonti (sede di Torino), Umberto Marrone (sede di Roma) e Stefano Squillacciotti (sede di Roma) sono psicoterapeuti, giovani specializzati (tra il 2020 e il 2022) nella Scuola di Specializzazione in Psicoterapia psicoanalitica della COIRAG. De Vita, Fonti e Marrone sono anche soci del Laboratorio di Gruppoanalisi.
CORINO: Come sapete, questo numero di Plexus è dedicato alla trasmissione e alla formazione alla psicoterapia. Al riguardo, abbiamo scritto l’articolo introduttivo che vi abbiamo inviato. Ad oggi, sul tema abbiamo intervistato Pierfrancesco Galli, Gilberto Di Petta, Antonino Aprea: tre generazioni di formatori che ci hanno offerto tre spaccati diversi di quel che è il lavoro di formazione alla psicologia e alla psicoterapia. Adesso pensavamo di rivolgerci alle generazioni più giovani, quindi abbiamo pensato di rivolgerci a voi che avete da poco concluso il percorso di specializzazione, per dialogare con voi intorno alla vostra esperienza di formazione, non solo in termini di quale bilancio pensate di farne, ma in che cosa vi è stata utile, in che cosa meno, come è avvenuta per voi questa esperienza del passaggio tra le generazioni rispetto alla professione di psicoterapeuta; quindi, che cosa vi è stato trasmesso, cosa vuol dire trasmettere, cosa vuol dire imparare un mestiere attraverso l’affiancamento, o lo sperimentare, lo sperimentarsi, o l’essere seguiti mentre si fa esperienza e così via.
RUVOLO: Proverei a riformulare queste indicazioni in forma di domanda: quel che vi sta servendo nella professione…
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…da chi lo avete imparato? Dove lo avete imparato? Come vi è stato “passato”? Se questa domanda non vi è utile, buttatela pure!
SQUILLACCIOTTI: Partirei proprio da questa battuta. Pensando alla trasmissione, mi viene da pensare che non si butta via nulla. Su dove si è appreso e da chi, è un po’ più difficile da dire, essendo un insieme molto complicato, essendo per la nostra professione molto complicato strutturare un pensiero sulla formazione, rispetto ad altre professioni. Nel vostro articolo è riportato spesso il discorso della bottega, ma la bottega ha a che fare con oggetti, noi abbiamo a che fare con esseri umani, e se è vero che esiste una tecnica, da sola non basta, sennò sarebbe riproducibile.
Non uso a caso il termine “riproducibilità”, essendo molto utilizzato nelle professioni sanitarie e scientifiche. Questo è un tema che nel corso della scuola di specializzazione è stato affrontato spesso, in particolare evidenziando quanto sia difficile la riproducibilità nella nostra professione, perché l’ingresso in un setting comporta inevitabilmente delle variazioni; ciò che si fa si può raccontare, ad esempio in una supervisione, però non è riproducibile, trattandosi di un rapporto interpersonale.
Per me, sapere, saper fare e saper essere si intrecciano, ma la crescita ha a che fare con il saper essere, perché si riesce più facilmente forse a trasmettere un sapere e un conoscere, ma il saper essere è quella parte un po’ più indefinita, più latente che ha a che fare con i rapporti interpersonali. Nel mio percorso, forse, sono proprio i rapporti che mi sono scelto nel mio percorso di crescita che mi hanno permesso di potere usufruire di più di quel sapere, di quel conoscere, consentendomi di accedere a un saper essere.
MARRONE: I quattro anni di Scuola li ho visti come un’opportunità, una fase di un qualcosa di più ampio. Mi sono avvicinato a COIRAG attraverso delle persone che me l’hanno fatta apprezzare. Pensando alle circostanze che mi hanno indotto alla scelta, mi viene in mente che continuo a stare in contenitori gruppali che sono quelli da cui penso di potere apprendere qualcosa, come il Laboratorio di Gruppoanalisi, in cui riconosco il pensare gruppale di cui questa associazione si fa portavoce, e come la Comunità terapeutica nella quale lavoro, perché lì vi sono diversità (in termini di professioni e di orientamenti teorici) che cercano in qualche modo di pensare insieme e di costruire una linea condivisa, per quanto possibile, su ciò che si fa.
Penso quindi che un po’ la Scuola, un po’ le precedenti esperienze di vita, un po’ oggi, il Laboratorio di Gruppoanalisi e la Comunità, mi consentano il pensiero dello stare nella relazione terapeutica con i pazienti attraverso un approccio gruppale, cosa che mi caratterizza e qualifica ciò che sto facendo. La cosa che più mi piace di questo modo di stare nelle cose è la complessità: più riesco ad approcciarmi in modo complesso alle cose, più è arricchente per me e per le persone con cui condivido qualcosa.
CORINO: C’è qualcosa di specifico che vi ha colpito, o che vi è rimasto, sia in negativo, sia in positivo, insomma qualcosa che ha lasciato un’impressione?
FONTI: Se penso alla mia formazione, penso che questa sia progredita attraverso momenti di grande rabbia e frustrazione che in qualche modo mi hanno perturbato; quando riuscivo a tollerare la frustrazione di stare nella complessità, o di non capire, o di stare facendo qualcosa che non mi dava un modello, una risposta, ma mi faceva fare più domande, finivo per apprendere qualcosa.
Mi vengono in mente diverse cose fatte in COIRAG che hanno prodotto questo: i contesti esperienziali, ad esempio quando è venuto Di Petta, o quando abbiamo parlato di Open Dialogue: la percezione a livello emotivo era di grande rabbia perché avevo la sensazione che non ci spiegassero ciò che stavamo facendo. Poi però, quando uscivo, sentivo che in qualche modo avevo imparato molto di più stando in quell’esperienza lì, senza che mi dessero una scaletta, o un programma di contenuti, perché mi era rimasto ciò che avevo esperito.
L’altra cosa che mi viene in mente è che qualche settimana fa una collega mi ha riferito che ha deciso di iscriversi in COIRAG dopo che io le avevo detto che quando portavamo i casi in supervisione, era come se in quel momento avessimo tutti in carico il paziente, con l’occhio esperto della docente che ci faceva supervisione. A lei, quell’idea di avere una “presa in carico gruppale” in un momento di formazione le era piaciuta tanto. Io ricordo che dopo aver portato un caso in supervisione, o dopo certe docenze, quando mi ritrovavo con un paziente, era come se nella stanza ci fosse qualcun altro con me, i colleghi o i docenti; ad esempio, ricordo un caso in cui mi erano ritornate in mente le parole della docente di Psicoterapia individuale. Poi, ciò che restituivo al paziente in quelle circostanze non erano quelle parole, evidentemente, però mi sembrava che qualcun altro pensasse con me il paziente.
DE VITA: A partire dalla lettura dell’articolo introduttivo di questo numero di Plexus dedicato alla trasmissione, mi sono venute in mente numerose esperienze. Ma innanzitutto mi connetto con quanto ha detto Irene a proposito della supervisione, perché è proprio l’esperienza che io sento di avere fatto in COIRAG, cioè l’idea che la supervisione non debba dirti cosa devi fare, ma farti capire intanto che cosa stai facendo, che cosa stai pensando, e cosa intendi fare. Questa è l’esperienza che io fatto con Ruvolo, in particolare, esperienza che è stata molto frustrante, perché non uscivamo con l’idea di cosa fare, ma piuttosto con un approccio diverso alla confusione, che inevitabilmente si genera nell’affrontare un caso, magari complesso e con noi alle prime armi.
Mi viene anche in mente ciò che ho esperito con Corino, allorquando avevo iniziato un’esperienza a metà tra il clinico e il pedagogico particolarmente complessa in cui non capivo bene cosa stessi facendo, ma in quel caso c’è stato qualcuno (Corino) che mi ha aiutato invitandomi, prima di pensare a ciò che avrei dovuto fare, a considerare quello che stavo provando a fare, pensarlo insieme a lui e soprattutto mi ha insegnato un modo diverso di guardare a ciò che stavo facendo, a partire dalla confusione che stavo provando allora. Non ho ricevuto indicazioni nette su che era opportuno che facessi; ho compreso invece quanto fosse importante pensare ciò che mi accingevo a fare e quanto fosse importante pensarlo insieme e in un arco temporale.
L’altro elemento che mi veniva in mente rispetto alla trasmissione è proprio il tempo: la maggior parte delle mie esperienze di tirocinio sono durate molto di più del tempo richiesto o previsto dal monte ore. Sono voluta rimanere molto di più in quei luoghi in cui sentivo che potevo apprendere, e dove c’erano persone disposte ad insegnarmi in un certo modo.
Un altro elemento che sento fondamentale e che rintraccio nelle mie esperienze formative è la relazione; quelli che considero oggi i miei maestri, quelli a cui faccio riferimento mentre lavoro, li sento come una sorta di voce interna (per capirci, penso qualcosa del tipo: “Ruvolo direbbe questo”), la relazione e l’affettività che si è costruita al di là dei contenuti. Qualche giorno fa ho dovuto gestire una situazione emergenziale: una paziente che attendevo per la seduta mi contatta telefonicamente in lacrime, riferendomi del tentato suicidio della madre. Io, dopo avere provato a tranquillizzarla e averla invitata comunque a venire allo studio, inizio ad attivare una serie di pensieri su cosa fare (chiamare la collega che ha in carico la madre, etc.). Con più lucidità, al termine della seduta, mi sono reso conto che ho pensato di farle, nella gestione del caso, non tanto perché le ho lette o me le hanno spiegate, ma perché le ho viste fare ad un maestro (osservare il mestiere “rubandolo” agli altri, come dice Andolfi nell’articolo), ma anche perché mi sono sentita autorizzata a farle io stessa, con la presenza silenziosa e “incarnata” del maestro in me.
PROFITA: Le prime cose che mi sembra emergono è il passaggio dalla ricerca di un modello, alla ricerca di una persona. Sembra che all’inizio l’aspettativa fosse cercare il come si fa; questo va poi sfumando in un incorporato, cioè nel fatto che le cose che si è visto fare diventano la vera guida, non sono i testi o i modelli. Questo passaggio è guidato dalla relazione con questi maestri.
Una cosa importante è per noi chiedersi chi sono i maestri e dove si trovano. Per noi è utile esplorare più a fondo il processo della trasmissione, che cosa passa, cosa transita tra persone rispetto a un mestiere. Forse apprendiamo uno stile, una modalità, cose impalpabili più che cose concrete.
FONTI: Mi viene in mente anche la capacità di cogliere o di intuire delle situazioni date dal trascorrere del tempo insieme. Penso al workshop nazionale, a quando un collega raccontava di un episodio in un campo estivo, in cui i partecipanti giocavano a una variante di nascondino. Inizialmente tutti, tranne uno, si nascondevano; ogni volta che un bambino veniva trovato, questi si aggregava alla squadra dei cercatori, che quindi man mano andava crescendo di numero. A un certo punto, quando il gioco sembrava fosse terminato, si presenta un bambino che si lamentava del fatto che nessuno fosse venuto a cercarlo. In quel momento, tutti i presenti (bambini e educatori) si sono improvvisamente messi ad inseguirlo per prenderlo. Ci sono delle volte in cui i miei maestri e il mio gruppo di formazione sono stati in grado, con una lezione, un confronto, una supervisione, di trasmettere quella sensazione lì, in cui ci si guarda e si sa cosa si deve fare, forse alla luce del fatto che si è trascorso del tempo insieme per ragionare su questi temi.
Mi viene inoltre in mente che qualche settimana fa una collega della sede di Milano raccontava che in occasione dell’ottantesimo compleanno di Pontalti, gli hanno fatto una torta con su scritto: “hai chiesto al nonno?”. Tutti abbiamo subito capito a cosa ci si riferiva. Non solo perché da qualche parte lui abbia scritto che nella psicoterapia bisogna coinvolgere tre generazioni, o meglio non è solo per quel motivo che una cosa del genere è rimasta impressa agli allievi; ma è l’impronta, l’accento che lui ha messo in tutte le sue lezioni.
CORINO: E dentro le maglie dell’assetto istituzionale, come vi siete mossi? Io da quel che avete detto, colgo finora due cose: una, la funzione del gruppo; l’altra, il fare esperienza, mettere le mani in pasta ed entrare in alcuni rapporti che poi diventano significativi. Aspetti che sottolineano la personalizzazione del percorso di apprendimento. Ma una Scuola è anche un apparato, e mi chiedevo come ci si muove lì dentro, con quali strategie. Per quel che è la mia esperienza, ai tempi della mia formazione i percorsi erano meno precostituiti; oggi, una delle questioni è che la formazione è proposta in modo più strutturato: tutto questo, in che modo è questionato da voi? Come siete arrivati a scegliere i maestri, al di là di questo?
MARRONE: Per me non è stato affatto semplice. Certe volte, mi sono trovato proprio a scontrarmi con le situazioni e le modalità standardizzate. Sono aspetti anche miei, non è la questione in sé, ma quando ad esempio ho portato delle esperienze di tirocinio che si inserivano con difficoltà entro delle standardizzazioni, per me, non è stato semplice. Io e altri miei colleghi questa cosa lo abbiamo sperimentato questo aspetto, quando ci è stato restituito attraverso valutazioni conclusive per noi non soddisfacenti, corrispondenti a un disallineamento tra le modalità standardizzate che ci venivano richieste e quel che era stato il nostro percorso; alcuni colleghi sono arrivati a piangere per questo. Il piano personale in queste cose entra con tutta la sua forza, queste standardizzazioni producono una mancanza di spazio, per quanto mi riguarda, una perdita delle individualità.
Poi per carità, la standardizzazione ha anche elementi favorevoli.
RUVOLO: Forse una delle domande è in quali forme poi si sono andate strutturando le esperienze e le relazioni con i maestri. Quando diciamo “maestri”, sembra che diciamo una parola gigantesca, ma a volte i maestri sono anche i pazienti, i colleghi. Qualcuno parlava di voci interiorizzate dei maestri, con i gruppi con i quali ci si è andati formando. Se penso alle mie esperienze formative, questi due versanti ci sono entrambi. Con i miei colleghi c’era molto un crescere attraverso il gruppo dei pari, oltre che ascoltare tanti maestri.
C’è una dimensione che rimane sempre molto problematica: spesso le voci degli altri si trasformano in voci che parlano al nostro posto, innestando un automatismo. Magari sono voci che hanno funzionato, ma che molto spesso c’è il rischio che assumano la forma di un riprodurre il pensiero e attraverso questo un testimoniare della sopravvivenza del supervisore o del maestro, invece di vivere dentro di noi in una forma di dialogo costante, permanente, in termini di voci dialoganti. Intendo dire che mi sembra importante per me chiedere a voi, generazioni successive alla nostra, quanto voi vi sentite comunque di avere generato, voi stessi, uno stile che non è lo stile del maestro, e che vi sembra vi contraddistingua e vi appartenga, che in questo stile c’è il dialogo con il maestro e non una semplice voce ripetuta (“hai chiesto al nonno”). Desidererei sapere quanto vi è stato passato in termini generativi nello stile che avete adottato, e questo come vi è stato passato. Io temo i maestri il cui scopo è riprodurre sé stessi; attraverso messaggi reiterati, più o meno di successo, in realtà tendono a inserirsi nel nostro modo di pensare e di agire e in qualche modo limitando la nostra capacità dialogica e la nostra personale generatività nel lavoro che facciamo.
FONTI: Uno dei miei docenti preferiti ci dava tanti suggerimenti bibliografici. Una volta, avevo letto un libro sulla fenomenologia e glielo avevo consigliato; lì per lì mi aveva guardato con perplessità, poi però lo lesse a sua volta, dicendomi che lo aveva trovato interessante e lo avrebbe utilizzato per le future docenze. Lì l’ho sentito un buon maestro, non perché avesse seguito il mio consiglio, ma perché aveva preso in considerazione quello che gli stavo dicendo.
DE VITA: “Come pensiamo che ci sia stata trasmessa questa capacità” è domanda più difficile del rispondere a “se pensiamo che le voci diventino dialoganti in maniera creativa”. Ripercorrendo le mie esperienze, sia di “ascolto interno” delle voci, sia di scambi diretti, credo che uno stile mi stia consentendo di costruirlo. Dopo che penso: “lui direbbe questo”, il passaggio successivo che mi ritrovo a fare è: “ed Elisa, cosa farebbe invece?”. La risposta su “come” mi hanno insegnato questo, è però più difficile, perché è un qualcosa da cogliere nel processo. Sto pensando al mio supervisore, che è anche un collega con cui condivido tante cose, che quando gli pongo una questione, mi pone per prima cosa la domanda: “tu, che ne pensi? Che faresti?”. Dopo che io dico la mia, lui approva o, eventualmente, precisa che cosa farebbe lui in più, oltre a quello che dico io. Credo quindi che mi sia stata trasmessa così, chiedendomelo, e in conseguenza del processo e dello scambio simmetrico che questo ha attivato, dando valore a ciò che penso, faccio e colgo io.
Per rispondere invece alla questione di come sono arrivata a scegliere i miei maestri, penso che nasca da una condizione di stima e di fiducia, oltre che a una sorta di innamoramento; c’è tanto di nostro, come diceva Marrone, e mi rendo conto che mi sono agganciata in particolare a quelle persone che hanno visto in me qualcosa che io faticavo a vedere e che me l’hanno anche detto.
FONTI: Ricordo una docente di COIRAG che non è stata mia docente, ma con cui ho avuto parecchio a che fare, che mi viene in mente a proposito di quel sapere impalpabile che non è trasmesso attraverso i libri. Una volta mi ha detto che Picasso, prima di passare al cubismo, ha dovuto fare un sacco di realismo. Era per dirci che prima di avere quella capacità di intuizione, improvvisazione, creare il proprio stile, è necessario sapere una serie di cose.
CORINO: Questo si riallaccia al tema dell’esercizio e del rigore. C’è qualcosa che ha a che vedere con questo, nella vostra esperienza? Come lo inserite? In questo senso, io faccio una distinzione tra “docente” e “maestro”.
SQUILLACCIOTTI: Per me c’è un abisso tra i due termini, nel senso che la differenza si poggia sulla qualità delle relazioni. Il sentire di potersi permettere di entrare in relazione, perché viene riconosciuta una potenzialità, fa parte di ciò che secondo me è più vicino a un maestro che a un docente, perché è più vicino al voler vedere il tuo saper essere piuttosto che il voler vedere o il volerti dare una conoscenza, o un sapere. In questi rapporti c’è inoltre un’idea di gruppo, e quindi di collettività, permettendo di sentirsene parte, che consente di potere pensare a qualcosa.
PROFITA: Mi è venuta in mente l’immagine di mago Merlino, quando fa una pozione magica, e mette nel calderone una serie di cose. Mi veniva in mente perché, come diceva Freud, governare, curare e insegnare sono mestieri impossibili, e sono impossibili perché in qualche modo sono magici. Mi chiedevo quali sono gli intrugli che mettete nel vostro pentolone.
Ferro in una conferenza diceva che qualunque articolo pubblicato nella Rivista italiana di psicoanalisi deve necessariamente partire da Freud, la figura totemica per così dire, senza la quale non è legittimo scrivere alcunché. Evidentemente ci sono dovunque maestri e totem (intesi come maestri che non abbiamo mai visto), a cui però si affiancano i propri intrugli personali, la propria sensibilità. Una bella ricetta forse sarebbe cominciare a distillare i nostri prodotti, che ci servono poi alla nostra professione. Questo significa una continua calibrazione e rielaborazione degli elementi personali e di quelli che vengono da fuori (gli aspetti prescrittivi o standardizzati della formazione istituzionale), per potere cogliere il “momento presente” (Stern).
FONTI: Pensavo a quanto mi sono dovuta sforzare nei primi due anni nella mia formazione, allorquando succedeva qualcosa, e io inizialmente mi sforzavo di trovare autori e teorie, e trovavo dei docenti (ma mi succedeva anche in terapia, anche la mia terapeuta è un mio maestro) che mi costringevano a fermarmi e a stare sull’emozione e a pensarla nel momento presente.
ALBA: Mi piacerebbe che emergessero elementi non troppo allineati. Nella mia esperienza di formazione, io ricordo che gran parte delle lezioni era davvero inutile, sembrandomi piuttosto una liturgia vuota. Mi piacerebbe sapere quindi che cosa buttate via, che cosa non volete usare.
Poi pensavo a una collega, mia paziente, che si è formata alla Scuola di psicologia clinica de La Sapienza, molto in gamba e molto sensibile, che però ha difficoltà a introdursi in una comunità professionale come psicoterapeuta, perché quel contesto non glielo consente, essendo caratterizzato da una logica profondamente diversa, in cui ad esempio il rapporto con i docenti è fortemente asimmetrico, e le relazioni tra pari sono governate da un ordine del discorso profondamente diverso, radicalmente differente, per intenderci, da ciò che diceva Fonti quando rappresentava quanto fosse importante che vi fosse il sentire un gruppo che ha una responsabilità comune e condivisa su un paziente portato da un allievo in supervisione. Lei, quindi, non riesce a fare collegamenti che le consentano uno scambio, quando ha a che fare con i colleghi più grandi che lavorano. Voi avete messo in primo piano la dimensione comunitaria e delle relazioni.
Ma sono interessato anche alle cose che non funzionano, o sulle cose sulle quali non siete d’accordo.
FONTI: I “segreti di pulcinella”… mi viene in mente un seminario al quale ho partecipato al I o II anno di Scuola, ricorreva il 25mo anno di COIRAG e a me sembrò molto celebrativo, ma man mano che andavamo avanti, scoprivamo che c’erano stati anche tanti conflitti, che si erano persi dei pezzi, etc. Anche se siamo una Scuola di gruppi, e poniamo le relazioni come fondanti, certe cose continuano a non potersi dire.
Mi viene inoltre in mente che a un certo punto è stata messa la regola che a partire dal III anno potevamo fare psicoterapia, ma solo se supervisionati e mettendo in fattura una dicitura del tipo: “psicoterapia sotto supervisione”; inoltre, si faceva riferimento a una lista di supervisori abilitati a consentire questo, ma non era nota, si veniva al più consigliati man mano.
A volte ho la sensazione che si decida di tacere delle cose agli specializzandi, che vengono rese note solo agli specializzati, un po’ come se ci fosse l’idea che arriverà solo dopo la maturità per comprenderle.
PROFITA: Il totem non lo posso guardare negli occhi. Queste dimensioni magico-istituzionali non hanno una logica, permane un alone di mistero, come la camera dei genitori dentro la quale non si può entrare. È un vizio di tutte le società psicoanalitiche, la difficoltà all’accesso alla camera dei genitori. Devereux, per esempio, fu bocciato al suo esame di psicoanalisi da Menninger e non seppe mai perché, non poteva essere nemmeno chiesto un chiarimento. Queste cose oggi si sono smussate, ma permane il discorso.
SQUILLACCIOTTI: A me questo mi incuriosisce, poterne parlare significa poterlo pensare e questo avvicina di più al discorso del maestro.
CORINO: Prima c’era troppa selvaggeria, oggi c’è troppa standardizzazione… come ce ne usciamo? Qual è il pensiero critico chepossiamo fare in tutto questo? 400 e passa scuole significa che abbiamo una grande possibilità di scelta, o che la scelta è solo apparente?
Vi ringraziamo molto della vostra preziosa testimonianza.
Appendice
Ripensare la formazione: dalla bottega alla standardizzazione (ovvero dai polli ruspanti a quelli non allevati a terra)
Ugo Corino
L’autore richiama gli inizi della formazione alla psicoterapia e li confronta con quelli odierni. Negli anni ’70, la formazione alla psicoterapia era diversa. Non esistevano scuole di psicoterapia o facoltà di psicologia, ma solo specializzazioni post-laurea. Gli studenti dovevano cercare esperienze e apprendimento in vari contesti, sperimentando e imparando dagli errori. La cura psichiatrica era incentrata sul lavoro di equipe, sulla partecipazione e condivisione nella cura, coinvolgendo i pazienti e le loro comunità. Tuttavia, c’erano anche lacune e criticità, come la mancanza di preparazione teorica e l’eccesso di ideologia. Oggi, la formazione è cambiata, ma presenta nuove sfide. La formazione si concentra maggiormente sulle procedure e il controllo burocratico a discapito del tempo dedicato alla cura e all’apprendimento effettivo. La trasmissione del mestiere richiede relazioni profonde e un tempo lungo, ma il modello attuale di formazione è compresso e regolamentato. La cura si sta orientando sempre più verso l’ambito privato e la relazione duale, a scapito del lavoro di equipe e dell’intervento multiprofessionale. L’articolo evidenzia la necessità di un approccio artigianale e la trasmissione di un modo di ragionare e uno stile di lavoro, oltre all’acquisizione di conoscenze teoriche. La formazione dovrebbe coinvolgere il racconto della pratica clinica e l’apprendimento attraverso l’esperienza e gli errori.
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The author recalls the beginnings of psychotherapy training and compares them with today’s ones. In the 1970s, during the era of standardization, psychotherapy training was different. There were no psychotherapy schools or psychology faculties, only postgraduate specializations. Students had to seek experiences and learning in various contexts, experimenting and learning from mistakes. Psychiatric care focused on teamwork, participation, and sharing in care, involving patients and their communities. However, there were also gaps and issues, such as a lack of theoretical preparation and excessive ideology. Today, training has changed but presents new challenges. Training now focuses more on procedures and bureaucratic control at the expense of time dedicated to care and actual learning. The transmission of the profession requires deep relationships and a long time, but the current training model is compressed and regulated. Care is increasingly oriented towards the private sphere and the dual relationship, at the expense of teamwork and multiprofessional intervention. The article highlights the need for a craft approach and the transmission of a way of thinking and a working style, in addition to acquiring theoretical knowledge. Training should involve the narration of clinical practice and learning through experience and mistakes.
Psychotherapy training; Individualized training; Standardized training
Siamo alla fine degli anni ’70. Giorgio Gaber, un autore oggi poco ricordato, aveva intitolato uno dei suoi album del Teatro Canzone: “Polli di Allevamento”1.
Grande preveggente: era allora, per me, una sorta di mini Freud o più correttamente uno psicosociologo tascabile come il famoso Bignami.
Mi è tornato alla mente in occasione al tema della formazione alla psicoterapia.
Noi giovani di allora eravamo gli ultimi ruspanti, oggi nell’epoca della standardizzazione gli allevamenti sono sospesi a mezz’aria (non a terra) e svezzati in batteria con mangimi selezionati e costantemente attenzionati.
Allora il nutrimento te lo dovevi andare a cercare, dovevi razzolare in territori diversi, avanzare per tentativi ed errori: a volte non trovavi nulla, altre volte facevi indigestione, altre ancora ti intossicavi…
Le scuole di psicoterapia non c’erano, la facoltà di psicologia nemmeno; c’era la specializzazione triennale post-lauream (a Torino era sulla psicologia sovietica). Io andai a Milano (già lavoravo, dovevo avere più di 30 anni): era in cogestione tra le Facoltà di Lettere e Medicina2.
Già durante l’università ti buttavano in acqua e dovevi imparare a nuotare o almeno a stare a galla (ero allora inserito come studente volontario nel manicomio di Collegno alle porte di Torino – eravamo nel 1968)… tant’è che iniziavi con gli psicotici, con la riabilitazione, con le assemblee di reparto, con la deistituzionalizzazione. Nei primi ambulatori, prodromi del futuro servizio pubblico, facevi le visite domiciliari spesso con un collega psichiatra (anch’egli neofita) e o con gli infermieri, nella stanza (rigorosamente senza lettino)3 facevi i primi colloqui, magari con un collega… i primi gruppi di terapia… il lavoro con le famiglie e/o con il caseggiato (Gasca & Corino, 1975).
Quel periodo, epoca un po’ pionieristica, al tempo stesso altrettanto illusoria e fors’anche ideologicamente semplicistica, la trovate ben descritta nell’appassionato e appassionante libro: “Una psichiatra di campagna. Percorsi nei servizi di salute mentale di Margherita Galeotti (2021).
Abbiamo avuto la fortuna di vivere in anni molto intensi, ricchi di stimoli, anni in cui ci sentivamo protagonisti del cambiamento e il connubio tecnico-politico esisteva davvero, soprattutto in alcune realtà. Mi auguro poi che la dimensione collettiva che noi della nostra generazione abbiamo vissuto, non lasci troppo spazio all’individualismo e che i giovani ricerchino nell’appartenenza alla collettività identificazioni, che diano loro la stessa gioia che hanno dato a me.
Una doppia collettività quella a cui professionalmente appartenevi dove le gruppalità, il lavoro di equipe, la multi e inter-professionalità, lo scambio e il confronto duro e appassionato (sull’oggetto più che sulla relazione), il ricercare, lo sperimentare (compreso lo sbagliare o meglio il procedere per tentativi ed errori) erano una risorsa (o per rimanere nella metafora iniziale: il pane quotidiano).
L’altra collettività era insita, inscritta nel territorio, nei luoghi di vita del paziente, nei suoi gruppi sociali di appartenenza, che ti proponevi di andare a conoscere, a coinvolgere (se ci riuscivi) per attivare processi di partecipazione e di condivisione nella cura4.
Un altro mondo un’altra storia, se volete una analogia come dopo la Seconda guerra mondiale c’è stato il periodo della ricostruzione e il successivo boom economico, dopo la distruzione (non esageriamo dopo lo smantellamento) dei manicomi5 anche per la psichiatria territoriale (o quella che si potrebbe chiamare di comunità, se non fosse stata poco applicata e linguisticamente inflazionata) si trattò di ricostruire ex novo (o quasi) una nuova idea di cura.
Riprendo una citazione dal libro della Galeotti:
Era davvero una sfida splendida e straordinaria. Non solo si stava passando dalla custodia alla cura, dalla custodia alla presa in carico, ma lo si faceva anche con strumenti teorici che permettevano di considerare la persona nella complessità delle sue relazioni col proprio mondo interno e col proprio mondo esterno.
Il sistema teorico di riferimento era condiviso dai vari membri dell’équipe di lavoro, creando la possibilità di un linguaggio comune. Il grande interrogativo era: è possibile la psicoterapia nei Servizi pubblici?
Fino a pochi anni prima le persone rinchiuse nei manicomi venivano custodite, a volte contenute con camicie di forza, trattate con elettroshock e coma insulinici – come ebbe modo di raccontarmi anni dopo un mio paziente – e ora si dedicava loro un tempo di ascolto, con strumenti terapeutici che consentivano di dare un nome, di collocare in una storia, di riempire di significato comportamenti un tempo giudicati folli e come tali repressi e contenuti.
Lo strumento del “pensiero psicoanalitico” consentiva di dare un significato condiviso a quanto veniva osservato, e questo permetteva di avere meno paura. E forse, se si ha meno paura, si può ascoltare meglio.
In genere un medico e uno psicologo vedevano un paziente insieme a un infermiere. Questa pratica poggiava sulle indicazioni di Giovanni Jervis (che allora dirigeva i Servizi psichiatrici di Reggio Emilia).
Al Centro di Igiene Mentale di Scandiano ci si dava del tu, in segno di democrazia nei rapporti interpersonali. Nessuno mi aveva mai chiamata dottoressa.
Ci si riuniva, come ho detto, due volte la settimana nella sala grande per la riunione d’equipe e ogni quindici giorni era dedicata alla supervisione esterna: due di noi presentavano un caso clinico al resto dei colleghi, coordinati dal supervisore esterno che, alla luce della sua esperienza, esprimeva il suo punto di vista, aiutando l’intera équipe a trovare chiavi di lettura che poi avrebbero reso più consapevoli gli interventi terapeutici.
D’altra parte, non è esattamente quanto avviene attualmente nella stragrande maggioranza dei Servizi Psichiatrici dove i giovani colleghi fanno la pratica professionale, dopo dieci anni di studi prima in facoltà poi nella specializzazione alla psicoterapia? Stesso clima, stessa impostazione, stesso orientamento (!).
No, non amareggiatevi troppo, in questa fase epica non c’erano solo luci ma anche ombre, ad esempio una minore preparazione teorica (si funzionava secondo il principio prassi teoria prassi), molta ideologia e anche pressapochismo, poca attenzione alla organizzazione, alla gestione e manutenzione delle equipe ancor meno alla formazione del personale. Il medicocentrismo (Parin & Parin-Matthèy, 1983) poco dopo la riforma Basaglia prende nella psichiatria il sopravvento. Molti psichiatri, ma non solo loro, si dimenticano che (come nel suo ultimo libro ci ricorda Marcel Sassolas, 2021):
La cura in psichiatria ha una particolarità: ne hanno titolo a praticarla due scuole di pensiero molto diverse: quella medico-biologica e quella psicologico-interpersonale. La cura medica prevale grandemente sulla cura centrata sulla relazione. I suoi obiettivi sono chiari, la sua natura è facile a comprendersi: un quadro nosografico di malattia con dei sintomi e dei trattamenti specifici per affrontarlo e, successivamente, degli interventi socio-rieducativi per attenuarne gli esiti. Trae beneficio dall’enorme capitale di esperienza e di mezzi della medicina somatica di cui rivendica di fare parte.
La cura centrata sulla relazione interpersonale si colloca in un ambito molto meno confortevole. Essa si è venuta costruendo lentamente a partire appena da mezzo secolo e l’eredità alla quale può fare riferimento è di gran lunga meno ricca ed anche diversa da quella della medicina somatica.
Non può aspettarsi nessun aiuto dalla biologia o dall’anatomia né dalle branche più recenti del sapere medico come la genetica e la tecnica delle immagini. Le referenze, quelle più esplicite, si collocano a fianco delle scienze umane: la psicologia, la fenomenologia, la sociologia e la psicoanalisi.
Potremmo aggiungere l’antropologia, la teoria della complessità, etc. Basta scorrere i programmi delle facoltà di medicina dove l’insegnamento di psichiatria è accessorio per non parlare poi della specialità dove all’automatismo dell’iscrizione all’albo degli psicoterapeuti non corrispondono insegnamenti corrispondenti. A dir poco una situazione scandalosa.
Prendo ancora spunto da M. Sassolas (2021) proprio in quanto psichiatra che per 50 anni si è occupato delle strutture di cura comunitarie in Francia per pazienti psicotici gravi:
L’esempio più eclatante è quello dell’insegnamento della psichiatria: il rigetto della psicanalisi da parte della maggioranza degli attuali professori di psichiatria comporta un impoverimento molto sensibile del bagaglio concettuale dei giovani psichiatri che, ormai, sono deprivati dei riferimenti teorici che avevano costituito l’humus della psichiatria centrata sulla relazione interpersonale. Non c’è niente di peggio per una pratica di cura che essere deliberatamente ignorata: la controversia derivante dalla sua rimessa in causa la mantiene in vita ma il fatto di non essere né evocata né studiata la condanna a morire a fuoco lento.
Non so se la formazione degli psicologi e degli psicoterapeuti si trova in una situazione migliore… certo le scuole di specializzazione permettono approfondimenti e acquisizioni di conoscenze incomparabili sia con i polli ruspanti a cui facevo riferimento, sia con gli psichiatri di nuova generazione orientati prevalentemente alla cura farmacologica integrata, quando va bene, a riabilitazioni di tipo cognitivo.
Quali sono i nodi o le aree critiche della nuova formazione? A mio modo di vedere le due lacune più rilevanti derivano la prima da una carenza di pratiche, troppe teorie poco supportate da esperienze che ne affinino una manualità necessaria se non fondamentale per un lavoro che rimane in gran parte artigianale (è difficilmente manualizzabile checché ne pensino i modernisti). Gli stessi luoghi di tirocinio -gli ambulatori del Servizio pubblico- con la loro crisi attuale (la gestione burocratico amministrativa) sembrano essere più luoghi del dis-apprendimento che del perfezionamento6.
L’altro nodo altrettanto problematico lo possiamo riferire alla emergente rappresentazione della cura demandata all’ambito privatistico e sempre più orientata alla relazione duale. Si va perdendo in questo modo l’esperienza del lavoro di equipe, l’intervento soprattutto per i casi gravi articolato in più figure ed apporti (operatori vari con approcci molteplici) non ultimo il lavoro con le famiglie e le figure di riferimento del paziente i suoi luoghi di vita.
Il rischio è quello di psicoterapie di sostegno per le patologie e o disagi lievi (il mal di vivere), la farmacologia e i nuovi manicomi chimici diffusi (le Comunità Assistenziali impropriamente denominate Terapeutiche, ormai anch’esse in appalto al Terzo settore) per i pazienti gravi ed economicamente poco redditizi.
Una sorta di spartizione del potere dove gli ordini professionali psi sembrano troppo occupati con le settimane del benessere per prendere posizione rispetto alla involuzione della legge 180 e alla gestione del Servizio Sanitario Pubblico.
Eppure le critiche, i disagi, e le prese di posizione sono ormai manifeste.
Ecco ad esempio cosa evidenzia ormai da tempo uno dei direttori delle Scuole di psicoterapia (Andolfi, 2020):
Come direttore dell’Accademia di Psicoterapia della Famiglia, penso di dissociarmi radicalmente dal pensiero universitario prevalente in Italia, volto a riproporre e imporre nella formazione della psicoterapia dottrine accademiche e curricula di insegnamento che ricalcano i programmi universitari, come se la specializzazione in psicoterapia fosse una riproposizione amplificata di una laurea magistrale. […]
È abbastanza singolare che in Italia non siano gli ordini professionali o le associazioni nazionali e internazionali di psicoterapia a stabilire i profili delle scuole di psicoterapia, ma sia piuttosto un Ministero, quello dell’Università, a definire idoneità, regole, orari e programmi formativi della specializzazione in Psicoterapia. Se quindi il modello dell’esamificio e delle lezioni accademiche frontali impera nei corsi di laurea, si rischia di riproporre e amplificare la stessa logica, minimizzando gli elementi costitutivi della specializzazione, che sono soprattutto l’apprendimento serio e prolungato in un quadriennio di una pratica clinica coerente con i presupposti teorici della Scuola prescelta, con una supervisione costante dei casi clinici seguiti e un serio tirocinio all’interno dei servizi pubblici.
Quasi trent’anni di Legge sulla Psicoterapia hanno portato a una amplificazione mostruosa del numero delle scuole riconosciute e a verifiche basate sovente su “corrette planimetrie”, ovvero sugli spazi fisici adeguati di una scuola e sull’erogazione obbligatoria di lezioni universitarie, come la Psicologia generale e la Psicopatologia, solo per citarne alcune tra le tante, più che a un approfondimento e una verifica dei modelli formativi delle specifiche scuole; operazione senz’altro più difficile, ma che sarebbe almeno meritoria per conoscere lo stato dell’arte della psicoterapia in Italia. […]
Negli anni Settanta e Ottanta, l’Italia era all’avanguardia in Europa e nel resto del mondo quanto a cultura psicoterapeutica nei servizi pubblici. C’è da chiederci cosa è rimasto oggi di questo patrimonio culturale basato sulla condivisione di pensieri ed esperienze cliniche e formative integrate e multidisciplinari. Basterebbe muoversi fuori dai confini provinciali dell’Italia per accorgersi che il mondo della psicoterapia ovunque all’estero non manda all’aria competenze acquisite da professionisti del settore e non esclude intere categorie professionali dalla formazione e dalla pratica della psicoterapia. Altrove, cervelli e conoscenze multidisciplinari si valorizzano e si conservano come patrimoni del sapere, al di fuori di beghe e carriere universitarie!
Nel nostro campo professionale le università (tranne rari casi) oltre a farsi “conservatrici” di conoscenze acquisite, sono state tutt’al più capaci di dar luogo a nuove conoscenze, a nuove competenze, ad un ampliamento del sapere, ma non del saper essere, e ancor meno del saper fare. Diventare psicoterapeuti analitici significa ripristinare proprio una unitarietà dialettica tra l’essere, il saper essere e il saper fare (cfr. AA.VV., 2021).
Se a questo accostiamo la rivoluzione informatica, le videoregistrazioni di lezioni, gli studi di casistica a distanza, etc., il modo di studiare e la trasmissione di un mestiere e fors’anche il mestiere stesso sono in piena trasformazione.
Già, ma l’informazione è strutturalmente diversa dalla formazione. La prima è istantanea, facilmente reperibile, improntata al consumo, immateriale. La seconda ha bisogno di fiducia, prossimità, continuità. La trasmissione per essere efficace e non distorta necessita di relazioni profonde, che si istaurano in un tempo lungo. Potremmo dire in una sorta di passaggio dall’emozione al sentimento: da qualcosa che è momentaneo, immanente a qualcosa che struttura una permanenza, una continuità temporale.
Anche Marcel Sassolas (2021) ci ricorda:
Il tempo attuale è sotto il segno di una razionalità eccessiva e intollerante, che si basa su indicatori oggettivi, al servizio di una ossessiva preoccupazione di un’efficienza immediata. É anche sotto il segno della programmazione degli obiettivi e del controllo della valutazione dei risultati. Prima ancora di essere intrapresa, ogni azione deve essere prevista, descritta in un progetto preliminare. Questo non nasce più dall’iniziativa di quelli che lo realizzeranno, ma dalla loro risposta a un’ingiunzione venuta dall’esterno (la richiesta di un progetto) i cui dettagli sono loro imposti. Questa procedura non è appannaggio esclusivo della psichiatria, riguarda praticamente tutte le attività del servizio pubblico che hanno un rilievo. Ma la sua nocività è sensibilmente grande in psichiatria: l’operatore non è più il soggetto della sua azione; è l’esecutore di un’azione pensata altrove.
Come potrebbe aiutare un paziente a ritrovare la strada della sua identità perduta, se lui stesso di fronte a questo paziente non è posto nella posizione di soggetto dei suoi agiti?
Pur se recente, il suo scritto non poteva ancora prendere in considerazione la nascita dei Rider della psicologia (le organizzazioni che appaltano la psicoterapia, come Unobravo, etc.).
A fronte di un modello siffatto che privilegia le procedure e il controllo, sia il tempo della cura, come quello della formazione risultano essere compressi a favore dell’espletamento di procedure burocratiche che rubano gran parte del tempo a ciò che dovrebbe essere il compito primario.
Come dice ancora Sassolas, il modello “che difendiamo ha il torto di consumare molto tempo nella cura”!
Siamo passati da una formazione “fai da te” tipica degli anni ‘70 del secolo scorso, dove ognuno andava a cercarsi i propri maestri o gli approfondimenti alla bisogna, ad una frammentazione e regolamentazione ossessiva della formazione, fortemente istituzionalizzata e burocraticamente normata. Da un eccesso all’altro…
Per Galli (cfr. intervista in questo numero) la psicoterapia presuppone la costruzione di un contesto curante in cui il singolo è sicuramente un elemento trainante, ma deve man mano verificarsi (confrontarsi) con gli altri in modo costante e ricorsivo (potremmo dire che necessitiamo di un gruppo di scambio e controllo).
Per lui la differenza è data da come vengono fatte le cose e ciò presuppone l’acquisizione di un modo di ragionare e non solo un cumulo di conoscenze. Ci ha ripetuto spesso: “devi implicarti, raccontare quello che fai e quindi raccontare la pratica clinica… Si impara facendo e dagli errori…”.
Essendo un amante della formazione artigianale o a bottega ci ha indicato per analogia tre mestieri a cui riferirsi:
- dal parrucchiere: per imparare lo stare in silenzio. Il parrucchiere che serve un cliente, non chiede, si limita a toccare qua e là la testa… è spesso il cliente che si mette a raccontare aspetti della sua vita Andando dal parrucchiere, lo psicoterapeuta può imparare […] il criterio che io chiamo della “doppia anamnesi”: una è quella in cui si fanno domande, alle domande l’intervistato risponde, etc. Ma mentre fai questo, ogni tanto, di straforo, come se capitasse per caso, butti lì una questione che fa rispondere subito su un altro livello e, lì entri davvero nell’intimità; questo fa sì che l’incontro diventi quello che dice Spaltro il “bell’essere” e la “pastità” (proprio nel senso del cibo). A un certo punto, occorre che l’altro senta questo odore di casa.
- dal ciabattino, per imparare come accostarsi con rispetto e in modo non intrusivo. Se entri nella bottega di un vecchio ciabattino, e chiedi di avere riparata una scarpa, quello ti risponderà di ripassare fra un mese. Perché? Questi stanno dentro una specie di antro, piccolissimo, con lo sguardo concentrato sul banco di Se invece di entrare, ti fermi sulla soglia e non dici nulla, il ciabattino a un certo punto alzerà la testa e ti guarderà: a quel punto lo potrai salutare. Dopo un po’, sarà lui a dirti di dargli la scarpa da riparare, e a quel punto lui amerà quella scarpa come la ami tu. Solo così si può entrare nel mondo autistico.
- dal ferramenta, per imparare a non essere nessuno. Entri in una ferramenta per chiedere una vite. L’operaio in tuta di lavoro sarà subito servito mentre tu, con la tua vite in mano, davanti al bancone in attesa per incontrare qualche sguardo, cerchi di catturare l’attenzione. Finalmente, ti daranno retta, ma ti sentirai chiedere una serie di dettagli ai quali non sai rispondere. Sei diventato, e ti senti, Questo è decisivo, perché se sei importante, l’altro ti deve buttare giù. Tu (il paziente) lo devi incontrare da sotto, non da sopra.
Dal canto suo, Di Petta (cfr. la sua intervista) “non è solo la trasmissione di un contenuto -ci ricorda– quanto la trasmissione di un essere nel mondo o se vogliamo la trasmissione di una posizione, di una presa di posizione o di un atteggiamento, o meglio ancora la trasmissione di uno stile. E prosegue:
Noi ci formiamo come clinici dell’umano, come clinici dell’esistenza, riguarda un modo di essere con un altro e quindi con sé stessi, un modo di essere nel mondo, uno stile di esperienza che solo ci consente di articolare una diagnosi e di portare avanti un percorso terapeutico. Il sistema salta quando lo specializzando va ad applicare il cluster diagnostico ad una situazione viva, senza che nessuno gli abbia detto come va applicato, senza che nessuno gli abbia detto come vanno articolate e giocate fra di loro quelle definizioni operazionali.
Noi rientriamo nell’essere dei neo-mammiferi che provano dolore e gioia, rabbia, piacere, amore, repulsione, tristezza, esaltazione, stati di euforia diversi. Ecco questo è un livello che è andato perduto, perché tutte queste cose, queste parole che io ho pronunciato non ci sono negli scheletri nosografici e neanche negli eleganti modelli metapsicologici, quindi sono delle cose che partono dalla tua capacità di sentirle dentro e di rimetterle in contatto con quell’umano più autentico, differenziato che solo ti consente il dialogo con il l’Altro.
Callieri, un grande della fenomenologia suo maestro che gli ha lasciato in eredità la sua biblioteca, ci racconta, ha voluto ad un certo punto del loro rapporto che passassero al tu.
Io l’ho sempre chiamato professore. Siamo stati in contatto praticamente per venti anni. […] Ci siamo incontrati che io avevo 30 anni e lui 70, è come se fosse mancata tra di noi, una generazione, una intera generazione intermedia nella cinghia di trasmissione della psichiatria, quella che ha partecipato al movimento della riforma [rif. alla 180]. Lui era prima di loro, io ero dopo, la generazione di mezzo è stata ingoiata dalla trincea, dal lavoro sociale, dalla militanza politica, dall’utopia che si potesse abolire la malattia mentale e cambiare il mondo: quella è una generazione scomparsa. Quando ci siamo incontrati tra i fumi delle macerie, perché lui era lì e ovviamente simpatizzava molto ma diceva anche “state attenti”… È stato travolto perché la psichiatria, come la psicopatologia ma anche la psicoanalisi, come ogni modello di cura è stato travolto dall’onda rivoluzionaria, e loro venivano considerati reazionari.
Sulle scuole e la formazione evidenzia come stia adottando un altro metodo, quello di lavorare con gli specializzandi come fossero dei pazienti: far loro sperimentare senza troppe mediazioni, il disagio, la sofferenza del disorientamento dato dall’incontro con l’altro e solo successivamente dare delle indicazioni, delle tracce in modo che i giovani colleghi possano poi iniziare a cercare. È solo partendo dallo spiazzamento emotivo, dalle dimensioni corporee che diventa possibile riprendere un lavoro intellettuale e di comprensione e di come tutto questo permetta di recuperare punti di vista, che nelle formazioni universitarie erano andate smarrite. Devo dire che conoscendo da tempo Gilberto Di Petta questo è uno dei punti forti e particolarmente significativi del suo metodo e del suo stile.
È questo per lui il punto centrale della formazione: l’esposizione. Ovviamente sotto la guida competente del maestro, una situazione che riesca a farti “toccare con mano” la necessità per muoverti in una condizione sconosciuta nell’incontro con l’altro, di fermarti e recuperare un orientamento, una traccia per come muoverti. Tant’è che:
Questa è una cosa che mi incoraggia molto –dice– perché se faccio una lezione teorica incontro il vuoto, prendono appunti, si segnano le note, comprano libri che non leggeranno mai, e tutto finisce lì. Se invece parto dal confronto con il paziente, diretto bruciante, o da una situazione emotiva che li coinvolge, poi sono più predisposti a fare il punto nave e a costruire anche un percorso di senso culturale.
Il discorso con Di Petta continua soffermandosi sul problema del tempo e del corpo:
La trasmissione informatizzata e operazionalizzata è una trasmissione senza tempo, una trasmissione atemporale, nel momento in cui poniamo il problema del tempo ritorna il problema dell’umano perché l’umano è il tempo, tutto ciò che è atemporale non è umano: appartiene agli Dei […]
Il tempo è la morte, ma anche la vita , perché se non c’è la morte non c’è la vita e il tempo non sta scorrendo. […] I nostri pazienti, tutti, si fermano nel tempo per abolire la morte e abolendo la morte aboliscono la speranza, perché il tempo è anche la speranza, solo il tempo che cammina verso la morte è un tempo che dà luogo alla vita. Secondo me, un modo per reintrodurre la dimensione del tempo è quello di far ripartire il ritmo, perché il tempo della vita è un tempo ritmico. Il cuore ha un ritmo, il tempo della vita ha un ritmo che è quello della fame, del sonno della veglia, e le emozioni sono delle cuspidi temporali; la carne è temporalizzata e credo che questo tempo lo possiamo far ripartire nell’incontro, perché il vero incontro, che sia unico o che si ripeta nel tempo è dotato di un ritmo. È l’incontro autentico che fa ripartire un ritmo che poi ognuno dilata, rallenta, accelera a seconda di sé stesso e dell’altro e a seconda di questo ritmo, il tempo torna. Se non si sente questo ritmo la dimensione del tempo viene abolita, e vivere senza tempo significa sostanzialmente vivere senza incontro, senza carne, significa non vivere.
Anche Aprea (cfr. la sua intervista7) è impegnato nel tentativo di introdurre nella formazione sommersa da regolamenti, dalle procedure, dalle norme, aperture verso il tema della complessità e del metodo (diverso dai modelli) e di decristallizzare alcune stereotipie…
Credo che, di fondo, trasmettiamo una posizione, una postura. D’istinto mi verrebbe da dire che, paradossalmente, uno dei problemi che incontriamo nell’organizzare una formazione alla psicoterapia è che tendiamo a trasmettere ciò a cui siamo legati. E, spesso siamo legati a concettualizzazioni, che nel nostro ambito sono continuamente reificate, e più raramente ad un modo di pensare, all’utilizzo dei saperi che si riferiscono in maniera pertinente al nostro oggetto di studio e alle sue specifiche caratteristiche.
È ironico che proprio i professionisti della psiche tendano ad avere una visione così monolitica dell’identità, negandone il suo costitutivo meticciato e la sua scientifica provvisorietà. C’è qui un nodo rilevante: ci costringiamo, come categoria, a delineare confini rigidi di competenze e metodologie per puntellare l’identità professionale anche se molte volte i problemi che incontriamo nella clinica richiederebbero chiavi interpretative e soluzioni fuori dagli ambiti rigidi ed angusti che strutturiamo.
Ciò avviene quasi clandestinamente, con una perdita enorme di acquisizione di ulteriori di conoscenze. La formazione alla psicoterapia in questo modo, rischia di diventare l’ambito del “si fa ma non si dice” ed anche del “si dice ma non si fa”. Siamo legati in maniera purtroppo identitaria a delle cose che trasmettiamo a volte non utili nella gestione della clinica contemporanea e tendiamo a svalutare o a negare altri legami e “attaccamenti” con altri modi di procedere, competenze, discipline che, in qualche modo, non essendo valorizzate appieno dentro noi stessi, tendiamo a non trasmettere.
Tonino Aprea ci ricorda alcuni dati interessanti. La comunità professionale degli psicologi è formata per il 50% da colleghi che non esercitano la professione. Un altro 25% secondo le ricerche dell’ENPAP, non riesce a vivere del proprio lavoro, almeno per una fase iniziale molto lunga della professione; quindi, solo il restante 25% ha una collocazione stabile e ben retribuita e il restante. Sono quest’ultimi che occupano i posti professionalmente più comodi e hanno tendenzialmente una clinica diversa da quella descritta cioè hanno meno esperienza circa “le aree grigie” della clinica contemporanea. Ma ricorda ancora l’intervistato sono proprio questi i formatori dei primi…
Si potrebbe dire che oggi abbiamo bisogno non solo di continuare a storicizzare il paziente, come ci ha insegnato la salute mentale di comunità e la psichiatria critica, ma anche di storicizzare il terapeuta. Se ci pensiamo non è stato per niente questo, il modo di pensare e procedere nella ricerca dei padri fondatori della nostra disciplina. A furia di preservarne in maniera distorta la memoria abbiamo sterilizzato la carica esplorativa del loro modo di procedere. Abbiamo scelto, perché molto più rassicurante, di trasmettere i loro pensieri, reificando teorie a servizio delle nostre esigenze di affermazione e difesa delle nostre identità professionali, non il loro modo di pensare. Secondo me una cosa irrinunciabile della “tradizione”, se proprio la vogliamo chiamare così, è la tensione fortemente esplorativa che ha animato la ricerca clinica. Le teorie dei grandi pensatori della nostra disciplina sono concettualizzazioni figlie di esplorazioni cliniche, sono il frutto del confronto con ambiti di intervento complessi e con i problemi, anche etici e politici, posti dalla sofferenza mentale e dalle sue conseguenze sulla vita delle persone, delle famiglie, delle loro comunità. Quelle concettualizzazioni erano fatte di pratiche attente in cerca di teorie, aperte costantemente alla falsificazione e dunque ad esplorazioni successive.
Nel nostro campo c’è un solo modo di falsificare utilmente le nostre teorizzazioni, è quello di ragionare a fondo sui nostri fallimenti clinici, sulla cronicità generata da sequenze di interventi inefficaci, molte volte realizzatisi in diversi contesti di cura e a partire dall’età infantile del paziente.
Arriviamo allora ad un nodo interessante: esistono nuovi maestri o la standardizzazione ha in qualche misura anche nel nostro ambito meso in crisi una selezione della classe dirigente? Che dire dell’attuale formazione e dei suoi formatori?
Una classe di formatori che dà per scontato un tipo di clinica che non è la clinica di chi lavora nelle istituzioni e di chi inizia la professione. Ci sono due temi che li accomunano quando sono confrontati nella clinica e hanno l’onestà intellettuale di interrogarsi sulle loro défaillances derivanti da situazioni psicopatologiche estremamente complesse e non sanno che pesci prendere. Questo potrebbe accomunare formandi e formatori su questi due aspetti che ovviamente è indicibile (casi complessi e non sapere cosa fare)… se fosse assunto sarebbe in realtà una miniera di esplorazioni possibili, perché significherebbe che tu da formatore con tutta la ricchezza del tuo sapere potresti aiutare i più giovani a posizionarsi su questo confine, potendo tu ragionare alla luce dei tuoi saperi, alla luce di elementi nuovi che ti portano i tuoi colleghi più giovani a contatto con queste realtà.
È come dire, se ci fosse la possibilità di ammettere che in alcune situazioni entrambi non sappiamo cosa fare sarebbe possibile un incontro in cui tutti diventiamo ricercatori… Questo per la realtà delle Scuole è molto difficile, intanto perché questo supposto sapere è molto ricercato (ovviamente la posizione degli specializzandi è quella di aspettarsi un sapere codificato, preconfezionato a cui attingere) e per noi formatori un ruolo molto seduttivo. Questo mi spingerebbe, per esempio, a dire che soltanto nell’ultimo anno della mia presidenza noi siamo riusciti a mettere mano ad una questione di base ovvero “come vengono scelti i docenti”.
Vedo un’unica opportunità: quella di andare a sbattere per imparare. Ho l’impressione che siamo in un sistema un po’ impazzito … un sistema che sembra servire più a chi forma e non a chi è formato. Penso che la ricerca operativa e lo studio della complessità siano tra le cose ancora in grado di entrare in dialogo con la passione di chi ancora questo lavoro lo vuole veramente fare.
Verso nuovi polli?
Nel concludere questo scritto riprendo parte della introduzione che Alberto Merini (2020) redige per la presentazione del libro della Galeotti da cui sono partito.
Egli si chiede quali le cause, quali le ragioni dei cambiamenti nella psichiatria e nella formazione:
La risposta più facile è: l’aziendalizzazione (cfr. Galli, 2006). Al posto dei Consorzi Socio-sanitari, creature del Comune e della Provincia, subentra l’AUSL (Azienda Unità Sanitaria Locale), azienda autonoma che dipende dalla Regione. Anche se formalmente mantengono una sorta di potere di controllo, in pratica il Sindaco, l’Assessore alla Sanità e quindi i Quartieri sono tagliati fuori dalla Sanità: al controllo popolare, descritto in precedenza, subentra il controllo politico.
Ma tutto questo non avviene nel vuoto. C’è anche un clima generale che sta rapidamente cambiando.
Ci sono le stragi che iniziano nel 1969 con quella della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano, “la madre di tutte le stragi” (17 morti e 88 feriti), per arrivare a quella di Bologna il 2 agosto 1980 (85 morti e 200 feriti). La bomba sul Rapido 904 del 23 dicembre 1984 (16 morti e 267 feriti) sembra opera della mafia.
Fra la Banca Nazionale dell’Agricoltura e Bologna altre stragi: Gioia Tauro (1970), Peteano (1972), Questura di Milano (1973), Piazza della Loggia di Brescia (1974), il treno Italicus (1974): tanti morti, tanti feriti, tanto dolore. Misteri a non finire, depistaggi… Poi ci sono le Brigate Rosse che dal 1974 al 1988 uccidono 88 persone. Il 16 marzo 1978 rapiscono Aldo Moro uccidendo i cinque uomini della scorta. Dopo 55 giorni uccidono anche Aldo Moro. Poi c’è la mafia che nel 1992 uccide Falcone e Borsellino, tutti gli uomini della scorta e la moglie di Falcone. Dolore e sgomento. Come è possibile? Mette bombe in Via dei Georgofili a Firenze (1993) e in Via Palestro a Milano (1993), probabilmente anche sul Rapido 904: morti e dolore.
All’inizio degli anni 1990, “Mani pulite”. Tante cose accadono anche a livello internazionale, ricordo solo la caduta del Muro di Berlino nel 1989.
Poi c’è la globalizzazione, l’economia che governa ogni cosa, la tecnologia che cancella posti di lavoro. Insomma, mi sembra che addossare tutte le responsabilità del cambiamento all’aziendalizzazione sia una risposta incompleta, forse sbagliata. Nel nostro ambito, la “Bologna rossa” descritta da Jaggi, Muller &: Schmid (1976) non c’era più; più avanti verrà eletto un Sindaco di destra e addirittura Bologna sarà commissariata.
Io non sono capace di dare una risposta sensata. Forse ci vorrebbe uno storico come Hobsbawm. Margherita Galeotti, pur lavorando intensamente e facendo cose belle, ha saputo conservare lo spirito del territorio e mantenere buoni rapporti con i politici e gli amministratori. Sarà perché è brava, perché era “psichiatra di campagna”, perché era appassionata al proprio lavoro o per tutto questo insieme.
Certamente oltre a quelle ricavabili dal testo e da quest’ultime considerazioni di Merini ne potremmo estrapolare altre. Mi limito a due semplici auspici: riprendere a fare ricerca operativa (maestri, formatori, formandi, etc. lasciando quelle accademiche agli insegnanti…) e trovare una mediazione tra gli allevamenti in batteria e quelli ruspanti…
A proposito di quest’ultimo auspicio, ormai una ventina di anni fa, dal macellaio della montagna, dove vado spesso, acquisto un vero pollo allevato a terra. Memore di una zia che quando ero piccolo fin dal primo mattino lo metteva in padella (pollo alla diavola con patatine) inizio anch’io a far rosolare poco dopo colazione -per mia figlia e una sua amica (allora giovani adulte)- questa ideale leccornia.
Risultato: “…sì, buono… ma ancora un po’ duro… magari era vecchio, non potevi trovarne uno più morbido?”
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